Quando il New York Times pubblicò in prima pagina la foto che oggi ha vinto il World Press Photo of the Year 2017, pubblicò anche un’intervista a Phil Corbett, il responsabile per gli standard etici del giornale, per spiegare ai lettori quella decisione. La foto andava fatta vedere perché “più potente della storia stessa”.
Una motivazione che ritroviamo oggi nel giudizio di Stuart Franklin, presidente della giuria del World Press Photo: «Una foto con un impatto incredibilmente forte».
L’immagine premiata è stata scattata ad Ankara il 19 dicembre 2016 dal fotografo turco Burhan Ozbilici dell’Associated Press e si intitola “Un assassinio in Turchia”.
Mostra il giovanissimo poliziotto Mevlut Mert che ha appena sparato all’ambasciatore russo in Turchia Andrey Karlov.
E grida di averlo fatto per Aleppo, per la città che nell’opinione degli islamisti turchi, e non solo turchi, era stata abbandonata alla sua sorte da Erdogan.
E’ una foto drammatica. E violenta. Al punto che ci sono levate voci critiche sull’opportunità di aver premiato una immagine così.
Oggi sul Guardian Stuart Franklin sottolinea «la compostezza, il coraggio e l’abilità nello scattare la fotografia» di Ozbilici, ma aggiunge che lo scatto è «moralmente tanto problematico quanto pubblicare le immagini di una decapitazione da parte dei terroristi».
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Fino a che punto può spingersi l’informazione? Fino a dove è legittimo che ci faccia vedere i dettagli più crudeli e scabrosi e intimi della cronaca?
Me lo chiedo, ce lo chiediamo in tanti, da molto tempo. E se escludiamo certi estremi ovviamente inaccettabili (e condannabili), ecco io non sono sicura di aver mai trovato una risposta certa. Anche se un pensiero mio ce l’ho.
Ricordo quando, nel settembre di due anni fa, ho condiviso su Facebook la foto, bocconi sulla sabbia, di Aylan, il bambino siriano morto nella traversata che avrebbe dovuto portarlo a Kos, in Grecia. E ho condiviso anche la prima pagina del quotidiano Il Manifesto, dove la foto era accompagnata al titolo Niente asilo.
Ricordo i commenti, quasi tutti di giornalisti come me, e quasi tutti contrari.
C’è chi scriveva: «Se fossimo un po’ più cinici saremmo più onesti. E sapremmo perché la foto dal bambino siriano sta su tutte le prima pagine dei giornali e dei siti in Rete. La domanda che ogni direttore di ogni tempo e di ogni epoca in riunione si fa è sempre la stessa: e se gli altri la mettono noi che facciamo? Così ora si pubblica tutto».
E chi commentava: «Sappiamo tutti che gigantesco cimitero sia diventato il Mediterraneo, e conosciamo le responsabilità dell’Europa. Chi ha un’opinione su ciò che sta accadendo se la tiene stretta, non la cambia. Sento che il mio, il nostro sguardo, non è in grado di accarezzare il bambino ma lo brutalizza ancora».
E ancora chi si scagliava contro il Manifesto: «Che orrore il gioco di parole del titolo Niente asilo, che orrore l’insensibilità del giornalista che fa giochi di parole sulla morte».
E poi c’era la scrittrice Michela Murgia, che sotto quest’ultimo commento aveva scritto: «Che orrore che il gioco di parole sia vero. E la verità non va nascosta».
Ecco, credo che il punto sia questo.
La verità non va nascosta. Anche se guardare certe foto fa male.
Guardare la foto che ha vinto l’ultimo World Press Photo fa male. Ma quella foto, e quella del bambino ebreo con le mani alzate o quella della bambina che fugge dopo un attacco al napalm in Vietnam, evidentemente vanno fatte vedere.
Lo ha detto oggi la grande fotoreporter Letizia Battaglia: «Non accetto moralismi, le cose devono essere raccontate. E’ giusto che il mondo veda. Lo scandalo vero è che certe cose avvengano. E le foto servono a non dimenticare».
E’ giusto che il mondo veda. E le foto servono a non dimenticare.
Ecco sì, forse è questa la risposta che cerco da tempo. Anche se è difficile imparare a sopportare il dolore di fronte a certe immagini. E ancora più difficile è trovare il coraggio di non chiudere gli occhi di fronte alla storia.
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