Chissà cosa ha provato quel camionista che ha fermato il suo tir a un paio di metri, forse meno, dal vuoto. Da quel salto nel nulla che, dopo il crollo del viadotto Morandi a Genova, sulla A10, ha inghiottito tir, camion e auto. Chissà com’è essere parte di una lotteria che ti salva la vita per un secondo o due.
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Quello che provo io è disorientamento, ancor più che rabbia. Le immagini del ponte collassato – giù per 100 metri – su capannoni ed edifici, che ha portato con sé e nel torrente Polcevera chi transitava in quel momento, inducono a chiedermi come sia possibile una tragedia del genere. E mi fa male ascoltare che la struttura era da sempre al centro delle polemiche per i troppi “aspetti problematici”, i costi lievitati durante i lavori di costruzione, i continui interventi di straordinaria manutenzione. «Prima si è sbriciolato il pilone centrale, poi è venuto giù tutto il resto» racconta chi c’era. E c’è chi sostiene che la colpa sia del maltempo. Della pioggia violenta (!). Mi fa male, davvero. Perché ha il sapore di qualcosa che riguarda mille altri ponti e strade e viadotti e lavori in questo povero Paese.
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«C’è un’Italia che crolla»: è il più comune commento che leggo sui social. Una sensazione di “crollo” che si respira da troppo tempo e che oggi si concretizza nelle macerie di questo viadotto, che i genovesi chiamano “Ponte delle Condotte” dalla società che lo ha costruito, e anche “Ponte di Brooklyn” per la forma che richiamava, almeno un po’, il famoso ponte di New York. Inaugurato nel 1967, era lungo un chilometro e 182 metri. Chi, come me, ha diviso la vita tra Piemonte e Lombardia, lo ha percorso decine di volte per andare anche solo un giorno al mare.
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Non so ora quante siano le vittime. In questi minuti si parla di 22 morti , ma c’è chi dice che siano decine (il bilancio alla fine sarà di 43 vittime). «Una tragedia che non deve più ripetersi» sta dicendo un viceministro in tv (il genovese Rixi). Dimenticando che una tragedia così non dovrebbe succedere mai.
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