In questi giorni di cronache, testimonianze, analisi, accuse, attacchi, “guerra” su tutte le prime pagine dei giornali (e tanta retorica), in questi giorni che seguono l’attacco a Parigi da parte dei terroristi dell’Isis, io ho imparato una cosa.
In questo mondo iperconnesso siamo spettatori di tutto quello che accade in qualunque parte del pianeta. Così succede di dover chiudere gli occhi davanti ai video postati dall’Is che ci fanno testimoni di scene atroci come le decapitazioni, i prigionieri chiusi in gabbia e dati alle fiamme, gli uomini costretti a scavarsi la fossa, i corpi delle donne e dei bambini ammazzati, i ragazzini che giustiziano “il nemico” , quelli costretti a giocare sotto terra per ripararsi dai bombardamenti.
È un bambino e non ha più di 10 anni. Vestito con una divisa mimetica, è in piedi accanto a un adulto, un militante dell’Isis, lo Stato Islamico. Davanti a lui, in ginocchio nella solita tuta arancione che i jihadisti fanno indossare ai prigionieri, c’è Mohammad Ismail, una manciata di anni più di lui, accusato di essere una spia del Mossad.
Il bambino gli punta la pistola alla testa. Lo guarda negli occhi. E gli spara in fronte. Poi lo finisce con il colpo di grazia. E alza l’arma verso il cielo ed esulta, come uno jihadista vero.