Vivere un’epidemia. Il contagio, l’emergenza sanitaria, l’isolamento, le “curve” di infettati, di morti, di guariti.
E’ la situazione nella quale ci dibattiamo oggi, smarriti davanti a questo “qualcosa” che non abbiamo mai conosciuto ma che sta travolgendo il mondo occidentale moderno.
Vivere un’epidemia. Stefano Zannini sa cosa vuol dire.
L’ho incontrato a Port au Prince, la capitale di Haiti, nel 2011. Lui, capomissione per Medici senza Frontiere, era impegnato a far sì che la popolazione scampata al terremoto non soccombesse al colera. Io ero là a raccogliere storie e testimonianze – compresa la sua – per il libro che stavo scrivendo.
Il colera non fa paura come il coronavirus. Ci sono misure relativamente semplici che consentono di controllarne la diffusione e di guarire. Ma a Haiti il contesto ne faceva un’emergenza drammatica.
Oggi Stefano, 47 anni, vive a Feltre, la sua città di origine, dove è tornato dopo aver ricoperto incarichi diversi per Msf in giro per mondo.
«Ho ridisegnato la mia vita» dice. L’esperienza con Medici senza Frontiere si ritrova però nelle parole che usa mentre racconta cosa fa ora. Un lavoro da coach, seminari alla Luiss a Milano e Roma sulla leadership in situazioni di emergenza, attività di formazione in azienda, orientamento scolastico per i ragazzi. «E il volontariato. E la montagna, a cui non rinuncio mai».
Come vivi questa epidemia tu che un’epidemia l’hai già vissuta?
«Con una prospettiva particolare perché questa è la prima epidemia che affronto come persona di una comunità che la subisce. A Haiti io ero dall’altra parte, quella di chi arriva sul posto, cura, salva vite umane».
Che ricordi hai?
«Di giornate estremamente intense in termini di ore di lavoro, di energie fisiche spese e di tante decisioni da prendere. La cosa che ricordo con più chiarezza è la sensazione, arrivato alla sera, di aver affrontato decine e decine di aspetti diversi. E, insieme, la consapevolezza di averne tralasciati molti altri».
Adesso come arrivi alla sera?
«Non so dirtelo. So invece che più cresce la pressione e più è alto il mio livello di attenzione, inteso come necessità di informarmi, di capire. Oggi, nella mia formazione professionale, si mescolano due anime. Quella umanitaria, di chi ha già vissuto un’esperienza di epidemia, e quella di coach che lavora sulle persone. Sto mettendo insieme riflessioni, spunti, considerazioni su quello che osservo: i comportamenti della popolazione, il modo di agire del governo, quello che – secondo me – potrà accadere nei prossimi mesi, sia a livello di sistema (aziende, organizzazioni), sia all’interno della rete sociale. E mi è successa una cosa speciale…».
Cosa intendi per cosa speciale?
«L’epidemia di coronavirus mi ha fatto tornare in contatto con amici e giornalisti della vita passata, compreso un ex collega di Msf che era stato il mio capomissione quando lavoravo in Colombia. Non lo sentivo da 9 anni. Mi ha scritto: “Noi che viviamo in Europa e abbiamo la stessa storia alle spalle perché non troviamo il modo di mettere a disposizione la nostra esperienza e le nostre riflessioni in un momento così difficile?”. Così abbiamo iniziato a lavorare insieme. Il nostro obiettivo è condividere quello che abbiamo visto, che abbiamo imparato, anche quello che abbiamo sofferto. In modo che ognuno ne possa trarre uno spunto, un apprendimento. In che cosa poi questo si tradurrà concretamente ancora non lo sappiamo, però sono convinto che ne verrà fuori qualcosa di utile».
Cosa ti ha insegnato e quanto ti ha cambiato ciò che hai vissuto a Haiti?
«Dal punto di vista professionale mi ha insegnato l’importanza delle relazioni umane. Si può essere efficaci anche in situazioni estremamente complesse, anche sotto stress, se si riesce a fare le domande giuste e ad ascoltare le persone che lavorano con te. Un altro insegnamento che mi sono portato via è quanto sia fondamentale – quando ci sono mille variabili da considerare – il concentrarsi sulle cose che veramente contano. Tutto il resto verrà dopo. Un concetto che mi ha cambiato come persona. “Prima le cose importanti” è essenziale per capire cosa vuoi fare, che tipo di persona vuoi essere, che genere di contributo vuoi dare, che ruolo vuoi giocare nella vita. Vale per tutti, e per tutte le situazioni».
Capire cosa conta veramente e su quello costruire il resto. Vale anche nella situazione tanto particolare che stiamo affrontando?
«Sì. E’ una delle opportunità che questa epidemia ci mette di fronte. Cos’è che conta davvero? E’ così essenziale ammassarci su una funivia per sciare mentre il sistema sanitario è sul punto di collassare? E’ davvero imprescindibile uscire per bere una birra al bar sapendo che, a causa di un contagio di cui possiamo essere complici, un anziano rischierà di vedersi negare le cure in ospedale?».
Ci cambierà questa epidemia?
«Ci cambierà. In che cosa e in che modo è però difficile da prevedere. Certamente si evolverà – perché andrà rivalutato – il ruolo dei giovani, che poco spazio hanno avuto in questa emergenza. Non sono stati coinvolti a sufficienza, anche per questo alcuni loro comportamenti sono di rischio. Dovranno essere resi più consapevoli della gravità di una situazione. Ma non è tutto».
Cosa vuoi dire?
«Qualche giorno fa, sul Corriere della Sera, ho letto una frase che suonava più o meno così: “Da tempo abbiamo imparato a vivere di diritti; adesso è arrivato il momento dei doveri”. Ecco, mi ha fatto pensare, è un passo in avanti importante da fare e vorrei davvero fosse uno degli insegnamenti di questa epidemia».
Imparare qualcosa di nuovo è positivo, anche se matura in un contesto di emergenza come questo che stiamo vivendo.
«E’ il seme da cui può venire fuori il germoglio più importante. E’ una questione di responsabilità che dovremo imparare ad assumere. Se ce la faremo la conseguenza sarà un effetto benefico non solo in caso di nuova epidemia ma nelle mille altre cose della vita di tutti i giorni».
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Stefano,una grande persona!il mio coach!
Ciao Simone, grazie del bellissimo riconoscimento. Prenditi cura di te e dei tuoi cari, è la nostra priorità in questo momento.