C’è un aspetto del mio lavoro che ho sempre considerato un privilegio: la possibilità di “essere” là dove le cose accadono. Che si tratti di un festival del cinema o di una guerra, dell’incontro con un premio Nobel o con un grande scrittore, i giornalisti vivono “in diretta” e vedono con i propri occhi eventi straordinari. E parlano con persone speciali che non avrebbero mai conosciuto se non avessero scelto questa professione.
È una consapevolezza che ho maturato nel tempo, mentre mi chiedevo perché mi piacesse tanto partire per luoghi disagiati, e raccontare storie a volte difficili e dolorose che lasciano strascichi nell’anima.
Per questo oggi riesco a intuire (solo a intuire, ovviamente) quanto grande sia la passione che anima certi fotoreporter come Simone Camilli, ucciso mercoledì 13 agosto insieme ad altre quattro persone dall’esplosione di una granata israeliana che gli artificieri stavano tentando di disinnescare a Beit Lahiya, nel nord della Striscia di Gaza.
Simone aveva 35 anni, una figlia di 3 e collaborava con l’Associated Press, l’agenzia di stampa internazionale. Viveva da tempo in quell’area e in passato aveva seguito altre guerre in zone difficili del mondo. Sempre in prima linea.
«Aveva il lavoro nel sangue» ha detto di lui il padre.
Simone era bravo. Con le sue immagini, riusciva a far sentire partecipi dei fatti anche chi da quei fatti era distante centinaia di migliaia di chilometri. Guardate il suo documentario About Gaza. Racconta, come pochi sanno fare, la vita quotidiana nella Striscia di Gaza. E aiuta a capire tante cose della guerra in atto.
Ho letto parecchie polemiche in questi giorni (e anche accuse velenose) nei confronti di chi decide che il suo posto è un posto di guerra, e quindi pericoloso. Ho letto frasi dure, per esempio, nei confronti di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, le due ragazze (“troppo giovani, troppo inesperte, potevano starsene a casa”) rapite in Siria dove portavano aiuto alla popolazione.
È idea comune che non ci sia missione umanitaria o notizia così importante da poter essere “scambiata” con una vita. Lo penso anch’io, forse. Ma penso anche che chi nasce con una passione forte abbia il diritto di rischiare il tutto per tutto per viverla e per difenderla. Mettendola al servizio di ognuno di noi, perché sulle tragedie del mondo non scendano il silenzio e l’assuefazione.
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