Questo pezzo è stato pubblicato su Donna Moderna tre anni dopo il terremoto che ha colpito L’Aquila il 6 aprile 2009.
La prima volta che sono stata a L’Aquila era di questa stagione, un fine agosto di vent’anni fa. Vent’anni sono tanti e non ho più presente la ragione di quel viaggio, forse un convegno da seguire, forse qualcuno da intervistare. Però ricordo di avere raggiunto la città utilizzando un pullman, che allora mi era sembrato un mezzo di trasporto antico.
Ricordo una passeggiata in piazza Duomo, grandissima e animata con la cattedrale imponente. Il centro storico pieno di gente. E l’aula magna di un’università affollata di studenti e il cartellone teatrale e tanti ristoranti aperti.
Ricordo soprattutto il mio stupore, perché non me l’aspettavo L’Aquila così bella, con quell’aria frizzante che aveva accolto me, in arrivo da una Milano calda e umidissima, e mi aveva fatto comprare un golf di lana. Ce l’ho ancora, tra le cose che non riesco a buttare.
Mi ero promessa di tornarci, per visitarla davvero, ma non è successo. Fino a quando, qualche mese fa, ho ricevuto una mail: mi invitavano a presentare il libro che ho scritto con Medici senza Frontiere.
Sono arrivata a L’Aquila un pomeriggio del mese di maggio. Tre anni dopo il 6 aprile 2009, il giorno in cui, alle 3.32, una scossa di terremoto di magnitudo 6.3 ha piegato la città e provocato 309 morti.
Com’è una città italiana tre anni dopo un terremoto?
Mi interrogavo su questo, io che in un capitolo del libro che andavo a raccontare denunciavo la situazione di Port-au-Prince, la capitale di Haiti dove, a due anni dal sisma, nessuno aveva neppure tolto le macerie dalle strade. E se qualcosa mi immaginavo era soprattutto un gran chiasso: martelli pneumatici, ruspe, gru… rumori di ricostruzione.
Ma a L’Aquila ho trovato solo silenzio.
La Cattedrale, danneggiata e inagibile, in una piazza vuota. Le strade deserte, gli edifici puntellati, i negozi chiusi. Tante case da demolire. Nessun lavoro. Tutto fermo. Le cause? Sempre le stesse. Ritardi, inefficienze, lentezze burocratiche, responsabilità disattese, promesse non mantenute.
Siete coraggiosi, ho detto a Valeria, Francesca, Piera, Paolo e alle ragazze di Volta la carta, un’associazione di aquilani che non si rassegnano, nata dopo il terremoto per rompere, con festival, incontri, caffè letterari, premi e iniziative culturali, quel silenzio terribile. Invitano gli scrittori e li portano a visitare la città, perché vedano “quello che non c’è” e ne possano poi parlare agli altri. Lo fanno per denunciare un immobilismo infernale, ma anche per dare forza a loro stessi. «Perché per liberarsi dalle macerie servono sì le ruspe, ma anche la cultura, la musica, il teatro.
Mentre aspettiamo che ricostruiscano le case, noi ricostruiamo i rapporti umani».
Parole importanti, che mi hanno detto mentre eravamo seduti a un tavolino di un bar in centro, uno dei rarissimi locali aperti poco distante dalla zona rossa, sorvegliata dai militari e dove ancora non si può entrare. Una lezione, la loro, per un Paese come il nostro che, alla mobilitazione emotiva che segue una tragedia, fa seguire troppo spesso il niente.
Tra un paio di mesi i ragazzi di Volta la carta daranno vita alla seconda edizione di una bella fiera dell’editoria. Lo scorso anno scrittori come Andrea Camilleri, Maurizio Maggiani, Dacia Maraini hanno riempito la città, che è sembrata tornare quella di un tempo.
Ci tornerò anch’io, per l’occasione, a L’Aquila. Prenderò il solito autobus, un mezzo antico. Porterò con me quel vecchio golf di lana. Spero di trovare rumore. E finalmente una città che rinasce.
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