Il 27 gennaio si celebra il giorno della memoria per ricordare le vittime dell’Olocausto. La data del 27 gennaio è stata decisa nel 2005 dall’Assemblea delle Nazioni Unite che ha fatto riferimento alla liberazione del campo di concentramento di Auschwitz da parte dei russi il 27 gennaio 1945.
Per parlarvi di questa ricorrenza, importantissima, voglio raccontarvi di Sarah, nata a Plock, vicino a Varsavia, nel 1921.
Ho conosciuto Sarah Rjfka Cjmbel nel marzo del 1994 a Casale Monferrato, dove si era stabilita da tempo dopo aver sposato un italiano incontrato ad Auschwitz, il campo di sterminio nel quale entrambi erano stati deportati. Stava per uscire nei cinema italiani Schindler’s list, di Steven Spielberg, e avevo avuto l’incarico di raccogliere una testimonianza di chi avesse vissuto in prima persona l’orrore di Auschwitz.
Credetemi: è difficile e terribile insieme chiedere di ricordare a chi ha una storia tanto tragica. Ma Sarah aveva accettato di incontrarmi perché, mi aveva detto al telefono, nella sua vita aveva uno scopo a cui mai avrebbe rinunciato: testimoniare («Parlo ai ragazzi. E loro mi ascoltano con molta attenzione»).
Così, un mattino, ho salito le scale che portavano al suo appartamento. Mi ha accolto una signora gentile che mi ha fatto sedere al tavolo di cucina e ha aperto davanti a me un quadernetto. In quelle pagine scritte a mano aveva raccolto le sue memorie. La vita felice fino al 1938. E poi la deportazione nel campo di Leipzig (dove aveva perso i genitori) e, successivamente, ad Auschwitz.
«Ho visto tedeschi strappare i bambini dalle braccia delle madri, e poi sbatterli contro i muri, fino a ucciderli. Ho visto prigionieri presi a bastonate sulla testa, fino a quando il cranio non si apriva, poi buttati nell’acido. Ho visto figli costretti a impiccare i padri: e i tedeschi guardare divertiti. Invidiavo chi era morto» mi diceva parlando piano, guardandomi spesso negli occhi.
E mentre mi raccontava le atrocità che aveva subìto o di cui era stata testimone mi ripeteva: «Sono cose accadute davvero. Orrori che io credo non siano finiti. Viviamo nel pericolo che si ripetano».
Io annuivo. Ma a quel rischio non credevo veramente.
Le parole di Sarah mi sono scoppiate in testa qualche mese dopo. In Bosnia. Dove ho incontrato uomini sopravvissuti ai campi di concentramento di Prijedor e Omarska, e raccolto testimonianze delle torture e dei massacri con cui si stava consumando la cosiddetta pulizia etnica.
«Ci tenevano in una specie di gabbia, circa 50 metri quadrati in cui stipavano 300 persone. Quanti eravamo? Forse sette, ottomila persone. I più forti venivano inviati a lavorare nella miniera, turni di 12 ore, e qualcuno alla sera non ritornava. Io ho visto tre persone uccise dalle guardie. Cercavano di scappare, si erano lanciati fuori dalle gabbie, un salto di quasi venti metri, erano a terra feriti e la milizia serba li ha fucilati».
Quelle parole, che in quel momento stavo ascoltando in Bosnia, io le avevo già sentite.
Ma è possibile che l’Europa non se ne accorga, mi chiedevo. Che l’orrore del nazismo non abbia insegnato proprio niente?
Ho di nuovo pensato a Sarah tempo dopo in Kosovo, a Kacanik, una decina di chilometri dal confine macedone a sud di Pristina, davanti a una fossa comune dove erano stati ritrovati i corpi di 200 donne, vecchi e bambini albanesi, massacrati dai serbi.
E ho pensato ancora a lei in Moldavia, repubblica dell’ex Unione Sovietica, quando sono entrata in un istituto-lager per bambine handicappate a Hincesti, poco distante dalla capitale Chisinau. Appena arrivate, le bambine venivano sterlizzate. E poi “prestate” ai camionisti di passaggio, o vendute, o sfruttate a scopi sessuali.
Dentro quel lager ho risentito le parole di Sarah: «Non è finita, non è finita qui».
Quello che posso aggiungere oggi è che la voce di Sarah («Testimoniare è il solo strumento che abbiamo per cercare di evitare che l’Olocausto si ripeta») mi è risuonata in testa altre volte nella mia vita, in altri tragici contesti, e anche recentemente. E ogni volta ho pensato a quanto coraggio abbia avuto nel voler ricordare, nel voler raccontare, quello che per lei sarebbe per sempre rimasto un incubo spaventoso («Ancora adesso, di notte, sogno che sono rinchiusa là dentro, sento le urla dei tedeschi, i colpi delle percosse. Mi stupisce il fatto di essere viva»).
Sarah Rjfka Cjmbel è deceduta il 27 maggio 1997. La sua testimonianza è stata raccolta dalla Comunità Ebraica di Casale Monferrato ed è stata acquisita agli atti della fondazione Spielberg di New York. Le sue memorie sono state premiate nel 1999 con la Medaglia d’Argento dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.
Il mio 27 gennaio, giorno della memoria, lo dedico a lei.
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