L’ho fatto perché trovo giusto rispettare le regole. Perché mi rendo conto che la pandemia è un’emergenza mai affrontata prima. Perché scagliarsi contro il Governo in un momento come questo porta a poco e forse non è neppure corretto.
Però…
Ho sempre messo la mascherina anche se respirare era faticoso e mi passavano accanto persone – tantissime – che la tenevano sul gomito o sotto il mento.
Ho fatto la fila fuori dai negozi, moltiplicando il tempo per la spesa, anche se dentro se ne stavano tutti vicini.
Me ne sono andata protestando da quei locali dove se ne fregavano del distanziamento.
Ho assistito sbigottita all’assalto alla metropolitana (uno scandalo credetemi).
Mi sono chiesta “ma un controllo ci sarà?” di fronte a situazioni che “il Covid non esiste”.
Ho avuto amici ammalati anche gravi, che mi hanno raccontato cose terribili.
Ho cercato un vaccino antinfluenzale (“vaccinatevi vaccinatevi voi che avete più di 60 anni!”), e sono costretta ad andarmene a novembre a Meda, 50 chilometri da Milano, in un centro medico privato dove lo pagherò un bel po’ di soldi (e chissà perché lì in vaccino ce l’hanno e il medico della Asl no).
Ho cercato un vaccino contro lo pneumococco, avendo fatto nella vita tre volte la polmonite, e non l’ho trovato neppure a pagamento.
Ho preso treni a Milano Centrale dove un cartello gigantesco all’ingresso avvertiva “toglietevi gli occhiali per la misura della temperatura” e dove – senza occhiali – sono andata a sbattere contro personale che mi diceva, infastidito, “entri entri… cosa fa? cosa aspetta?”. E la temperatura mai me l’ha presa.
Sono rimasta senza parole davanti a un campionato di calcio pieno di giocatori positivi che però – guarda un po’ – quello non si ferma. E di fronte alle foto della funivia a Cervinia affollatissima di sciatori.
E ancora.
Mi sono svegliata di notte con un pensiero fisso, il desiderio di un vaccino che mi ridia la vita di prima. Ma che non ho capito quando mai arriverà, nel delirio di dichiarazioni di virologi, immunologi, esperti che ci rovescia ogni sera la tv.
Mi sono svegliata di notte ragionando sulla rabbia sociale che sta cominciando a esplodere.
Mi sono svegliata di notte perché ho perso un bel po’ di lavori, anche belli, anche all’estero, e ho pensato di essere comunque fortunata perché ho sempre avuto contratti che mi hanno tutelato e garantito. Mentre oggi chi fa il mio lavoro vive situazioni disperate.
Mi sono svegliata di notte con il rimorso/rimpianto di aver creduto per anni, e anche con orgoglio, che Milano e la Lombardia fossero davvero una città e una regione un passo avanti, “europee”, moderne… Beh, non vi sto a dire cosa ho visto.
E poi.
E poi, in questi mesi faticosissimi in cui ho sempre cercato di seguire le regole nonostante, nonostante, nonostante… in questi mesi sono andata a Teatro. E mi sono sentita meglio. Soprattutto mai in pericolo.
Al Piccolo Teatro Grassi, nel chiostro Nina Vinchi, al Piccolo Teatro studio Melato (dove ho assistito a una mezza dozzina di spettacoli) ho sempre trovato controlli rigorosissimi. Temperatura, igienizzazione, poca gente e lontana, personale pronto a intervenire se, tra gli spettatori, qualcuno si abbassava la mascherina (“la può alzare per favore? E buona serata!”). Tanta attenzione come in nessun altro luogo mai.
Questo per dirvi che non capisco non capisco non capisco (tre volte) la decisione presa in questo ultimo DPCM. Chiudere i teatri – secondo me – non ha senso, non serve, è sbagliato, è inutile, è assurdo.
Per dirvi che servirà poco, ma ho firmato la petizione “Non chiudiamo cinema e teatri”.
E per dirvi anche che oggi sono arrabbiata, ancora più di quanto lo sia stata per tutte le cose che vi ho raccontato qui sopra.
E chissà se questo riguarda solo me.
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