Immaginate la giornata di un bambino italiano. La colazione con i genitori, la scuola, i compagni, i colori, la luce del sole che filtra dalle finestre. E i giochi in cortile, le corse nei prati.
Poi immaginate la giornata di un bambino siriano. A cui manca il pane. Che vive nel terrore. Che non può studiare. E neppure uscire di casa perché rischia di morire sotto i colpi di mortaio o per mano di un cecchino.
Ci sono momenti in cui mi chiedo dove nasca il coraggio.
Ho avuto la fortuna di poter visitare i luoghi di Malala Yousafzai, la ragazza pakistana a cui oggi è stato assegnato il premio Nobel per la pace insieme a Kailash Satyarthi, attivista indiano per i diritti dei bambini.
E allora. Leggo che secondo i Centers for disease control and prevention di Atlanta, l’ente nazionale americano che si occupa di salute pubblica e che raccoglie alcuni tra i migliori virologi del mondo, l’epidemia di ebola è qualcosa di simile a un’apocalisse incombente. Da qui a tre mesi, infatti, il virus potrebbe infettare fino a un milione e 400 mila persone nell’Africa occidentale. A oggi i Paesi colpiti sono Sierra Leone, Nigeria, Guinea, Liberia e Senegal.
Ecco, se dovessi definirla con una frase, potrei scrivere “Non se ne può più”.
La crisi di ascolti dei talk show politici può sorprendere solo chi non vive la vita vera. Che poi sarebbe quella di ciascuno di noi, fatta più o meno degli stessi problemi: il lavoro (che non c’è), i soldi (sempre troppo pochi), le scuole (che non funzionano), la sanità (spesso scadente).