So cosa significa dover raccontare un terremoto poche ore dopo che è accaduto. Ne ho seguiti tanti per il mio giornale, terremoti o alluvioni o altre tragedie del genere. E so che è giusto per un giornalista raccontare le storie, per arrivare al cuore della gente, per far capire ciò che è difficilissimo comprendere se non succede a te.
Vivo a Milano e questa mattina, alle 7,40, ho sentito il terremoto: 6,5 scala Richter, epicentro tra Norcia e Preci, centro Italia, lontanissimo dalla mia città. Ma si è mosso il letto, come se qualcuno lo prendesse a calci, e io ho chiamato il Miche, che era già in piedi: «E’ il terremoto» gli ho detto, e lui mi ha guardato stranito. Invece i lampadari appesi al soffitto dondolavano…
Ho avuto paura.
Perché so cosa significa camminare su una terra che trema. Dove ho camminato anch’io in passato, cercando di fare domande a chi aveva appena perso la casa e le cose di una vita, se gli era andata bene. Perché tanti che incontravo avevano perso un figlio, o la moglie, o i genitori, o gli amici…
Mi guardavano con gli occhi smarriti e io avrei voluto farmi polvere come quella che mi circondava in ogni dove, in paesi che non c’erano più.
Così mi sedevo vicino a loro, uomini e donne terrorizzati, e cercavo di parlare di “vita”. Non so se fosse la cosa giusta, ma mi sembrava stessero meglio raccontando dei nipotini scampati ai crolli, del cane che era con loro sotto la tenda di fortuna, della pasta al pomodoro distribuita dai volontari «che è buonissima» mi dicevano «quasi come quella che faccio io a casa». Una casa che non c’era più.
Io oggi sono qui e guardo smarrita, stanca, davvero stanca, i video che circolano su giornali anche molto autorevoli, o in televisioni importanti, con quelle terribili domande al povero anziano a cui è venuta giù la cucina mentre si stava facendo il caffè, o all’uomo che ha visto diventare briciole la sua piccola azienda.
«Lei cosa ha provato in quel momento?». E sento le risposte balbettate. E penso che così no, così no per favore.
Perché si può immaginare quello che hanno provato senza che lo dicano a parole. Si può immaginare quello che hanno provato e quello che proveranno tra qualche mese, quando di loro non si parlerà che saltuariamente.
E quello che proveranno dopo un inverno, e un altro ancora, e un altro ancora, che passeranno dentro a casette prefabbricate, aspettando una ricostruzione che – salvo miracoli – sarà lentissima.
E che lascerà un segno. Per sempre indelebile nelle loro anime.
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