Lorenzo Amurri, scrittore, musicista e produttore musicale, è morto oggi a Roma. Aveva 45 anni.
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Io le prime righe di Apnea, che Lorenzo Amurri aveva pubblicato nel 2013 per Fandango, me le ricordo ancora, come se le avessi lette cinque minuti fa.
«È quasi l’ora di pranzo. Sto sciando insieme alla mia fidanzata, in realtà la precedo perché è troppo lenta.
È quasi l’ora di pranzo. Ho la faccia immersa nella neve. Non sento più niente, come fossi dentro un batuffolo d’ovatta. Non riesco a respirare. Qualcuno mi prende la testa tra le mani e la gira: respiro».
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Per molti anni, nel mio lavoro, mi sono occupata di storie difficili. Per questo Apnea era arrivato sulla mia scrivania. Racconto della vita del suo autore, e del prima e del dopo l’incidente sugli sci che a 26 anni lo aveva reso tetraplegico.
Il prima: la vita spericolata di un musicista deciso a “sperimentare ogni cosa”, dopo parecchie bocciature a scuola, la droga, le notti bravi e un rapporto difficile con il padre (lo scrittore Antonio Amurri).
E il dopo: che iniziava con la faccia nella neve. Proseguiva con le cure dolorose, la consapevolezza di non poter più camminare, la difficoltà a muovere le braccia, il corpo insensibile, la riabilitazione in una clinica svizzera, la sedia a rotelle. E Apnea, che Amurri aveva scritto con il dito mignolo, premendo una lettera alla volta sulla tastiera del computer.
«L’ho voluto scrivere per un sacco di motivi» aveva detto. «Le persone “normali” non sanno bene quello che c’è dietro una persona in carrozzina.
Non sanno, per esempio, che la carrozzina è già un premio.
Per arrivarci ci vuole fatica, lavoro e non è detto che ce la fai. Il giorno in cui ti ci siedi, suona assurdo, ma hai vinto».
Io voglio ricordare Lorenzo Amurri con il testo del suo ultimo post, pubblicato sul blog Tracce di ruote il 12 maggio scorso.
Si intitola “Quaranta minuti” e dice così:
«Qualche giorno fa, dopo quasi cinque mesi passati a letto, mi hanno fatto sedere sulla carrozzina per quaranta minuti. Quanto durano quaranta minuti? Quante cose si possono fare in quaranta minuti?
Si può avere la pressione bassa e perdere il primo quarto d’ora a cercare di non svenire. Si può ascoltare il rumore del proprio sangue che scorre nelle orecchie, e sembra un rubinetto dell’acqua lasciato aperto.
Si può cadere all’indietro e sbattere violentemente la nuca contro il muro, perché la tua sedia a rotelle ha l’assetto di quando pesavi dieci chili di più. Che tra dolore, contraccolpo al collo e panico generale (non il mio), ti fa perdere un altro quarto d’ora.
Si può scendere al piano terra dell’ospedale, uscire fuori nel cortile e per cinque minuti sentire il calore rassicurante del sole: lasciarsi accarezzare dai suoi raggi, respirare ossigeno, cambiare prospettiva e sentirsi ancora vivi.
Si può comprendere con lucidità, forse per l’estrema fatica fisica che si prova a stare seduti, la gravità di quello che è successo in questi mesi. Si può ripensare al grande affetto ricevuto. Un affetto mai scontato, senza il quale non sarei riuscito a superare la tempesta che mi ha investito. E si può sperare di lasciare il prima possibile l’ospedale, e magari ritrovare un pezzo di quell’affetto».
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Cara Monica, una testimonianza importante.
Che fa commuovere.
E riflettere su quanta gioia diamo per scontata.
Grazie per la tua sensibilità.
Giovanna Sica.