Il 28 aprile è il giorno della memoria delle vittime dell’amianto. Il pezzo qui sotto l’ho scritto il 13 febbraio 2012, dopo la sentenza di primo grado del processo che ha condannato i proprietari dell’Eternit.
«Tu sei di Casale Monferrato?». Sì.
«La città dell’Eternit?». Sì.
«Dei morti di cancro provocato dall’amianto… anche nella tua famiglia?». Sì.
«C’è il processo, speriamo vi renda giustizia». Sì.
«Siete coraggiosi». Sì. Anzi: i casalesi sono coraggiosi, io no.
Io per molti anni non ci sono riuscita. A essere coraggiosa. A spiegare prima di tutto a me stessa, e poi a chi mi chiedeva, la strage assurda che ha colpito, e sta ancora colpendo, la mia città.
Sì, sono di Casale. No, non ne voglio parlare. Sono troppo coinvolta, ho perso troppi amici, è qualcosa più grande di me…
Scuse, solo scuse. È per paura che non ce l’ho fatta mai a raccontare la storia di una fabbrica che fino al 1986 ha inquinato Casale lavorando l’amianto, una fibra che provoca il mesotelioma pleurico, tumore da cui non è mai guarito nessuno. Finora i morti sono 1.830, operai e impiegati ma anche cittadini che all’Eternit non erano mai entrati.
Un numero impressionante e neppure esatto, solo quello a cui si è arrivati da quando le vittime dell’amianto si contano. Destinato a farsi più grande, perché il mesotelioma si manifesta dopo un’incubazione anche di 40 anni: nel 2011 a Casale ci sono stati 50 nuovi casi e la malattia crescerà almeno fino al 2020.
È per paura (chi sarà il prossimo?) che, a chi mi ha detto troppe volte: «Lo conosci? Si è ammalato… di quel male lì» ho sempre risposto mi dispiace, facendo un passo indietro, senza riuscire a dire altro. Mi dispiace.
Mi dispiace e ho paura.
Però, anche se in silenzio, l’ho seguita la storia della mia città.
Ammirando l’impegno dell’Associazione famigliari vittime di amianto e il coraggio della sua presidente Romana Blasotti Pavesi, 82 anni e un’intera famiglia sterminata dal mesotelioma. E la forza e la tenacia dei tantissimi casalesi che si sono battuti affinché si arrivasse al processo, iniziato poi a Torino il 10 dicembre 2009, contro i proprietari dell’Eternit Jean Louis de Cartier e Stephan Schmidheiny.
In questa battaglia collettiva c’è stato un momento critico: a dicembre il sindaco e la maggioranza del consiglio comunale di Casale hanno votato l’accettazione di un indennizzo di 18 milioni di euro offerto da Schmidheiny in cambio del ritiro del Comune dalla costituzione a parte civile. Una decisione poi revocata, per la reazione della città e per l’intervento del ministro della Sanità. Ma proprio in quella fase concitata, ascoltando la voce dei casalesi che manifestavano il loro sdegno nei confronti di ciò che sarebbe stato un terribile passo indietro, ho capito che
il silenzio non vince la paura, non cancella la realtà anche quando questa è insopportabile.
Il 13 febbraio, collegata con il Tribunale di Torino grazie a Internet, ho seguito la sentenza. Tre ore e un minuto ci ha messo il presidente della Corte per leggere la condanna a 16 anni a entrambi gli imputati, riconosciuti colpevoli di disastro ambientale doloso e omissione volontaria delle cautele antinfortunistiche, e per pronunciare i nomi (un elenco interminabile e doloroso) di coloro a cui è stato riconosciuto il risarcimento: gli ammalati e i familiari della vittime.
Un collega mi ha chiesto: «Avete vinto, sei contenta?». Per un attimo ho pensato di risponde sì, e di fare un passo indietro. Invece ho deciso di spiegargli che vittoria non è la parola corretta, perché a Casale si continuerà a morire. Che è opportuno, invece, parlare di giustizia, anche se una sentenza non ci ridarà persone a cui abbiamo voluto bene e non ci risparmierà dal male. Gli ho detto che di amianto è piena l’Italia, che bisogna lottare perché vengano stanziati soldi, tanti soldi, per la bonifica e per la ricerca medica. E che è un dovere di tutti, e di chi è nato a Casale per primo, testimoniare e battersi affinché si intervenga sulle altre aree inquinate in Italia e non si ripetano crimini come quelli dell’Eternit.
Bisogna farlo, anche se si ha paura. Come ho cominciato a fare anch’io. Oggi, raccontando questa storia a voi.
***
Nel giugno 2013, nel processo d’appello, Stephan Schmidheiny, è stato condannato a 18 anni di reclusione. La Corte di Torino lo ha ritenuto responsabile di disastro doloso anche per gli stabilimenti Eternit di Bagnoli e Rubiera. L’altro imputato, Louis De Cartier, è morto pochi giorni prima della sentenza. I giudici hanno disposto risarcimenti per quasi 90 milioni di euro, di cui più di 30 al Comune di Casale Monferrato.
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Il 19 novembre 2014 la Cassazione ha dichiarato prescritto il reato. Con la motivazione che Stephan Schmidheiny era stato condannato per disastro ambientale doloso e non per omicidio, e che il disastro è prescritto per la chiusura degli stabilimenti nel 1986.
Le condanne sono state annullate, i risarcimenti azzerati.
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