L’ho visto la prima volta qualche mese fa. Credo fosse gennaio, perché era freddo anche nel corridoio della stazione della metropolitana.
Lui era lì in un angolo: ho “sentito” il suo sguardo e allora gli ho dato un’occhiata, ma di sfuggita: magro era magro, non denutrito però. Un muso sveglio. «Che bel cagnolone» ho pensato, con quel pelo di un rosso di tutte le sfumature del mondo, un nasone e due orecchie lunghe.
Stava buono e sdraiato su una copertina vicino a un ragazzo un po’ truce, il solito foglio di cartone davanti “datemi un euro per mangiare”.
Ho tirato dritto, e un po’ mi sono sentita in colpa.
Da quel giorno, tutti i giorni.
Lo trovavo nel solito angolo la sera quando tornavo a casa. Passavo e agitava la coda, ho cominciato a sorridergli nonostante il truce padrone.
Io sono una a cui piace immaginare le vite degli altri. Negli aeroporti in attesa dell’imbarco, nelle stazioni mentre aspetto treni che non arrivano, negli alberghi delle vacanze dove faccio colazioni lunghe un’ora, guardo il primo sconosciuto che mi sta accanto e mi invento la sua vita. Mi scrivo in testa chi è, cosa fa, cosa gli piace e cosa odia, per quale partito vota, gli amori, i figli, i nipoti…
Ovviamente non faccio domande, né parlo con nessuno, tanto meno al poveretto. Questa volta però…
Chi era quel ragazzo seduto per terra? Perché chiedeva l’elemosina se aveva appena poco più di 20 anni? Che gli era successo? E quel bel cane rosso era lì solo per intenerire i passanti oppure era l’amico da cui non si separava mai?
Sarebbe stato più semplice costruire il mio solito castello di carte, invece una sera ho rallentato, ho tirato un sospirone, ho lasciato cadere un euro su quel foglio di cartone, e ho detto “buonasera” al ragazzo. Che mi ha guardato sorpreso e poi ha sorriso, in fondo meno truce di quanto mi era apparso fino ad allora.
Ci ho messo due settimane a chiedergli il nome del cagnolone. Altre due per chiedergli se a Scheggia (ecco come si chiamava!) avrei potuto portare qualche volta un biscotto. E altre quattro settimane ad azzardare una mezza domanda sulla strana coppia.
«Siamo due scappati di casa» mi ha detto, e se su se stesso è rimasto molto vago, la storia di Scheggia me l’ha raccontata.
«Una notte ero sbronzo e giravo per strada. Ho visto due orecchie agitarsi, nell’acqua del Naviglio, dov’era scivolato. O dove forse lo avevano buttato. Ho alzato le spalle, ma poi sono tornato indietro e l’ho tirato su. Non lo volevo ma ha cominciato a seguirmi. Mi sono messo a correre, e lui dietro. Per questo l’ho chiamato Scheggia. Ora siamo in due, ridotti un po’ così.
Ma insieme non siamo soli».
Mi sarebbe piaciuto sapere altro. Mi sarebbe piaciuto soprattutto un lieto fine. Invece è un mese che nel corridoio della metropolitana Scheggia e il ragazzo non ci sono più. Spariti all’improvviso un mercoledì, e mai più apparsi.
A me resta una grossa scatola di biscotti per cani a casa. E questa storia da raccontarvi.
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