«Da dove vieni tu, dall’Italia? E cosa fai in Malawi? Vuoi ascoltare la mia storia? E allora eccola, la mia storia.
Mi chiamo Mary e ho 26 anni. Abito a un’ora a piedi da qui, un’ora quando non piove perché se la strada diventa fango, allora posso metterci mezza giornata o non arrivare affatto.
Sono entrata in questo ospedale la prima volta tre anni fa. Ero incinta di sette mesi, era la mia seconda gravidanza. Avrei dovuto venirci da tempo, per i controlli. Ma avevo una figlia di sei anni, e ogni giorno dovevo pestare il mais nel mortaio di legno, setacciarlo a mano, riporlo nelle ceste di paglia e cucinare lo nsima, la polenta di farina di mais bianco, e andare al mercato a vendere le zucche e i pomodori, e a prendere l’acqua nel pozzo…
Sono arrivata al settimo mese, e mi hanno fatto il test: positiva al virus Hiv. Fai controllare tuo marito, mi hanno detto subito. Sono tornata a casa, ero spaventata, gliene ho parlato. Non solo lui ha rifiutato tutti i controlli, ma mi ha ripudiata. Fuori, mi ha gridato: se sei malata è perché mi hai tradito.
Sono tornata qui, con la mia bambina, ho chiesto gli esami anche per lei: era negativa. Ho aspettato che venisse il tempo del parto: sapevo di essere troppo avanti nella gravidanza per evitare di contagiare Christie, la mia seconda figlia. Ma speravo. Dopo un mese è nata ed era bella e sembrava sana. Ho sperato, ho sperato per sei settimane, fino a quando il test non ha frantumato i miei sogni. Christie, però, è stata subito curata: oggi segue la terapia, ha 3 anni e cresce bene.
Io sono rimasta a lavorare qui. Mi occupo delle donne incinte. Ogni giorno ne incontro tante, a cui spiego i rischi dell’Hiv e l’importanza del test. E quando arrivano i risultati, sono accanto a loro. Perché hanno paura, e io so cosa vuol dire. Non le lascio mai sole, queste mamme in attesa: le accompagno nel programma anti-Hiv, le seguo giorno per giorno, spiego la funzione dei farmaci che devono prendere: se capiscono, non si dimenticheranno di farlo, non butteranno via le medicine.
Sono con loro per incoraggiarle, per spiegare che la sieropositività non è una condanna a morte, ma deve essere l’inizio di una nuova vita. Mi ascoltano, sai? Ascoltano la mia storia che è anche la loro. E io uso l’esempio della mia vita per salvarne altre.Tante sono sposate a uomini che all’inizio non vogliono che si facciano curare in ospedale.
Gli uomini spesso reagiscono male alla notizia della malattia perché hanno paura di perdere tutto: la moglie, la famiglia. Non vogliono fare il test, chiedono aiuto solo quando stanno male. Per questo l’Aids colpisce più donne ma uccide più uomini. Io consiglio alle mogli di non rimproverarli per questi comportamenti, e di convincerli a venire qui, a conoscere il nostro programma. Anche con quelle che sono state ripudiate, che hanno divorziato a causa dell’Hiv, insisto: andate da loro, parlate, spiegate…
L’ho fatto anch’io. C’è voluto del tempo ma ho trovato la forza di chiamarlo quel marito che mi aveva cacciata. Sono riuscita a parlargli, e lui alla fine mi ha ascoltato. Un giorno me lo sono trovato in ospedale: ha fatto il test, era positivo. Poco per volta sta accettando la sua malattia. E la mia. Siamo tornati a vivere insieme, nella casa a un’ora di cammino da qui».**
** La storia di Mary l’ho raccolta a Thyolo, in Malawi, in un ospedale dove ha sede un progetto di Medici senza Frontiere. È pubblicata nel libro L’altra faccia della Terra (Mondadori, Strade Blu).
Il 1° dicembre è la Giornata mondiale contro l’Aids. Secondo Medici senza Frontiere questa malattia comincerà a essere debellata in Africa solo se saranno coinvolte e sensibilizzate le comunità di ogni villaggio, per far sì che ci sia aiuto reciproco e collaborazione tra le persone, per esempio nell’andare a ritirare a turno la terapia antiretrovirale. Perché in Africa gli ospedali sono pochi e lontani e per ricevere i farmaci spesso ci si impiega tutta la giornata, quando invece nei Paesi occidentali basterebbero pochi minuti di attesa nella farmacia del proprio quartiere. Questo scoraggia molti a curarsi.
Medici senza Frontiere ha lanciato una mobilitazione online, anche in italiano, attraverso un “thunderclap”, una piattaforma dove le persone potranno amplificare con un tweet le richieste di Msf affinché i sistemi sanitari tengano in massima considerazione le esigenze di chi è affetto da Hiv. Si intitola “La mia vita nelle mie mani”.
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