E allora. Leggo che secondo i Centers for disease control and prevention di Atlanta, l’ente nazionale americano che si occupa di salute pubblica e che raccoglie alcuni tra i migliori virologi del mondo, l’epidemia di ebola è qualcosa di simile a un’apocalisse incombente. Da qui a tre mesi, infatti, il virus potrebbe infettare fino a un milione e 400 mila persone nell’Africa occidentale. A oggi i Paesi colpiti sono Sierra Leone, Nigeria, Guinea, Liberia e Senegal.
E allora. Chiedo a Grazia Caleo, 37 anni, napoletana, epidemiologa di Medici senza Frontiere, appena rientrata da una missione a Kailahun, in Sierra Leone, cosa sia per lei l’ebola. Mi risponde con un esempio sorprendente.
«Nel libro Cecità, Josè Saramago descrive un’epidemia causata da un’infezione sconosciuta che provoca la cecità. Un’unica persona non infetta racconta la rabbia, il caos, la violenza e la morte provocati dalla diffusione della malattia. Nel libro, la discesa dell’umanità nella più totale cecità rappresenta la perdita della ragione e mostra come la paura possa provocare un drammatico collasso della società. Nello stesso tempo, la vista di una sola persona sembra essere l’opportunità per ripristinare la luce. Quello a cui ho assistito sul campo, in Sierra Leone, mi ha ricordato il racconto di Saramago».
La risposta cieca. Grazia definisce così la prima reazione al diffondersi dell’epidemia. «Il rischio e le conseguenze dell’ebola sono stati sottovalutati. La paura per le voci che si rincorrevamo è aumentata. Troppo tardi gli abitanti dei villaggi sono stati informati riguardo alla malattia e alla sua diffusione».
Tu Grazia cosa facevi a Kailahun? «Il mio compito era quello di capire come e perché la gente si ammalasse. Visitavo le abitazioni, informavo il villaggio, mi assicuravo che tutti gli infetti fossero isolati. Uomini e donne mi raccontavano come all’inizio del diffondersi del male ci si aiutasse reciprocamente. E come in seguito, invece, i malati dovessero nascondersi nella foresta, sia per paura, sia per evitare di essere stigmatizzati. Per diversi mesi quei villaggi sono rimasti soli a combattere l’ebola, e molti di loro hanno visto un gran numero di morti. Per quanto mi riguarda, mi sono sentita impotente di fronte a tante morti, e stupita quando ho contribuito alla guarigione di alcuni. Ma ogni persona con cui ho avuto a che fare mi ha aiutato a pensare al migliore modo di rispondere all’emergenza, mi ha permesso di capire cose, mi ha portato un po’ di luce».
Grazia ha lavorato a Kailahun quattro settimane, durante le quali nel centro di Medici senza Frontiere sono stati ricoverati 175 ammalati di ebola. Ne sono guariti 17.
La diffusione dell’epidemia di ebola procede molto più rapidamente degli sforzi internazionali per contenerla. L’Organizzazione Mondiale della Sanità l’ha definita un’emergenza di salute pubblica internazionale. Le équipe di Medici senza Frontiere, oltre 2.300 operatori tra cui molti italiani, lavorano giorno e notte per salvare più vite possibili. Per sostenere Msf e contribuire all’invio di personale specializzato, alla realizzazione di nuovi ospedali da campo, strutture d’isolamento e laboratori mobili per la diagnostica, alla distribuzione di kit medici e igienici, alle campagne di sensibilizzazione tra la popolazione e nelle strutture sanitarie locali, qui trovate tutte le informazioni.
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