Sono passati più di 20 anni dall’uccisione in Somalia dell’inviata della Rai Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin e di quell’omicidio non si conosce ancora la verità. È uno dei grandi misteri del nostro Paese, una delle vergogne italiane.
Vent’anni sono troppi. Troppi anche per la mamma di Ilaria, Luciana Riccardi Alpi, che ha chiesto di mettere fine al premio giornalistico intitolato alla figlia. Un premio importante, assegnato a professionisti prestigiosi e a giovani reporter di grandi capacità.
Ma Luciana ha deciso: «Basta». Basta con il concorso e con le iniziative dedicate alla giornalista e a Miran Hrovatin.
«Con l’andare degli anni è divenuto tutto particolarmente oneroso» ha spiegato «anche per l’amarezza che provo nel constatare che, nonostante il nostro impegno, le indagini in sede giudiziaria non hanno portato alcun risultato. Ho 81 anni, io non me la sento più. Non è possibile aspettare 20 anni per avere giustizia. Mio marito è morto senza sapere la verità, e forse anche io».
A Mogadiscio è il 20 marzo del 1994, il giorno del ritiro del contingente italiano dalla Somalia. Sono passate da poco le due e mezzo del pomeriggio, quando un commando di sette somali blocca l’auto dove si trovano Ilaria Alpi, 33 anni ancora da compiere, inviata del Tg3, e Miran Hrovatin, 45, operatore. I somali fanno fuoco. Miran muore subito. Ilaria un’ora dopo. Le indagini, lunghissime, portano a un’inchiesta di Ilaria sul traffico internazionale di veleni prodotti nei Paesi industrializzati, tra cui l’Italia, in cambio di armi e finanziamenti. Ma sono troppi i depistaggi, troppo grande l’omertà, perché si arrivi alla verità vera.
Ho incontrato Giorgio e Luciana Alpi, genitori di Ilaria, tre anni dopo la morte della figlia, nella casa di Roma. È passato molto tempo ma ricordo benissimo la loro determinazione nel pretendere la verità. La forza nel battersi contro bugie e omertà, ritardi e provvedimenti inspiegabili. «La morte di nostra figlia e di Miran non deve aggiungersi al lungo elenco dei segreti di Stato» mi avevano detto.
Ricordo la loro volontà disperata, e anche la luce spenta che avevano entrambi negli occhi. Lo sguardo di un uomo e una donna che avevano perso per sempre l’unica figlia e che forse avevano già iniziato a intuire che quella morte non avrebbe mai avuto un responsabile vero. Gentilissimi, ospitali, mi avevano accolta quasi con affetto. «Lei ha l’età di Ilaria, buon lavoro, buona fortuna».
Li ho rivisti per tanti anni in televisione, in occasione del premio intitolato alla figlia. Disponibili con i giornalisti, «i colleghi di Ilaria», sempre determinati e sempre con quello sguardo pieno di dolore.
Giorgio Alpi è morto nel luglio del 2010. Luciana ha continuato da sola la sua battaglia.
Quando, tre giorni fa, ho letto della sua decisione di interrompere il premio, ho cercato di ricordare i dettagli di ciò che mi aveva detto tanti anni prima. Ci ho messo un po’ a ritrovare quell’intervista. Ma ce l’ho fatta. Ecco come si concludeva.
«Noi abbiamo bisogno della verità. Siamo due genitori disperati che corrono, chiedono, questuano. E questo chiedere sempre: “Per favore diteci come è morta nostra figlia” ci umilia molto. Ma non abbiamo mai pensato di rinunciare, di smettere con la nostra battaglia. Mai. Certo, abbiamo momenti di profondo scoramento. Ma poi pensiamo a cosa deve avere patito Ilaria nei momenti seguenti l’uccisione di Miran, prima che altri spari colpissero anche lei a morte. Di fronte a questo il nostro sacrificio è nulla. E allora diventiamo più determinati. E anche un po’ più cattivi. Vogliamo sapere la verità. Ce lo chiede la gente, che ci avvicina per strada, che ci ferma al cimitero, che ci scrive. E ci invita a non mollare».
Vent’anni così, senza mai mollare mai. Ma oggi, per Luciana Alpi, è arrivato il momento di dire basta.
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