Un’uscita importante, a sei anni da Accabadora che ha fatto vincere alla scrittrice il premio Campiello.
Per farmi raccontare Chirù, ho incontrato Michela qualche giorno fa a Torino, la città dove lei, sarda, abita in questo periodo.
È stato un incontro forte e intenso. Perché, ancor prima di parlarmi di Chirù e di Eleonora,
Michela mi ha parlato di sé e della sua vita. E di un tumore, un matrimonio, una separazione e un nuovo amore.
«Sono cambiata come non si cambia in tre esistenze» ha detto a me che, almeno all’inizio, ero un po’ in affanno al pensiero di interrogarla su quel cancro affrontato e vinto a quarant’anni.
Lei lo ha capito, quell’affanno. «So che fa male. Parlarne lascia dei lividi anche a chi ti ascolta, non solo a te che lo confessi. Per questo l’ho taciuto, tranne che con pochissime persone. Non ho detto nulla neppure a mia madre. Una mamma che vede la figlia malata di cancro è disperata. Se io non ero cambiata perché avevo un tumore, il mio tumore avrebbe potuto paradossalmente cambiare lei».
La malattia si è fatta viva nel 2014, nell’ultima fase della campagna elettorale che ha visto Michela Murgia candidata alla presidenza della Regione Sardegna a capo di “Sardegna Possibile”. E in quei mesi così difficili e intensi («Il tempo diventa un tempo d’attesa dell’ultimo esame, degli esiti della chemioterapia…») Michela ha deciso di lavorare a un romanzo diverso da tutti gli altri.
«Chirù è il libro che ho deciso di scrivere per raccontare cose che pensavo di dover invecchiare prima di poter narrare. Invece mi sono trovata a chiedermi quanto tempo avessi ancora davanti. Ad affrontare l’idea che quello potesse essere il mio ultimo lavoro. Non è un libro autobiografico, ma ha in sé molto della mia vita».
Dal cancro Michela è uscita. «Non voglio dire guarita, perché dal cancro, anzi dall’idea di cancro, non si guarisce mai. I medici ti dicono: “Tutto ok, il male non dà segni di vitalità”. Sì. Tu però sai che il tumore è come un signore che, seduto su una panchina, se ne va dimenticando il giornale. Potrebbe tornare a prenderlo in qualsiasi momento. O non tornare mai». Che è un esempio efficace, se ci si pensa, e anche difficilissimo da sopportare. O forse no, almeno a vedere la forza che la malattia le ha lasciato in eredità.
Come cambia la vita, ho chiesto a Michela. E lei: «Esci da un tumore e devi rimettere ordine nella scala dei tuoi valori. Fai i conti con le scelte fatte e ti chiedi: “E se non avessi tutto il tempo che credevo? Se me ne restasse poco, sono sicura di volerlo vivere così? O ho ancora qualcosa da chiedere e da dare?”. Ho parlato con mio marito. Ci siamo detti: ci siamo voluti bene, non ci siamo mai fatti del male, ci siamo sempre appoggiati l’uno all’altro. Ma il nostro rapporto non è più un matrimonio. È amicizia, è un patto di reciproco sostegno, è complicità. Entrambi siamo ancora giovani, lui più di me, e forse è giusto chiedere alla vita qualche altra cosa. Così ci siamo separati».
E poi? «E poi ho trovato un amore nuovo e bellissimo» mi ha detto Michela salutandomi, e aveva gli occhi che ridevano. E allora ho riso anch’io, pensando a come sono belle le storie che finiscono bene.
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