Anni fa ho trascorso sei mesi con Medici senza Frontiere, un’esperienza da cui è nato un libro.
Ricordo bene quanto, i primi tempi, fossi presa ad appuntare situazioni e contesti e progetti che andavo visitando e a registrare interviste. Un impegno totalizzante, a cui si aggiungeva la concentrazione nel “salvare me stessa” dalle difficoltà di quei viaggi.
Erano difficoltà non solo materiali – che pure esistevano – ma soprattutto psicologiche, perché sbattere contro situazioni terribili di cui molto avevo letto ma niente visto si era rivelata una prova difficilissima per me.
Poi, all’alba dell’ultimo giorno dell’ultimo viaggio, in Malawi, è successo che mi affacciassi alla finestra di un ambulatorio di Msf. E lì, in quell’istante, ho finalmente visto senza altri pensieri. E capito.
Ho visto una fila lunghissima, centinaia e centinaia di metri credo, di mamme di non più di 15 anni che portavano sulle spalle i loro bambini. Ragazzine che avevano camminato tutta la notte scalze nella terra rossa di quel Paese per poter arrivare all’unico presidio medico dove avrebbero ricevuto i farmaci necessari a tenere sotto controllo la loro sieropositività. Erano state infettate dai mariti, ma mai avrebbero potuto parlare con loro della malattia, perché sarebbero state immediatamente ripudiate e cacciate di casa.
Non c’è possibilità di vita in Malawi per una donna ripudiata e cacciata.
Così quelle quasi-bambine si prendevano i figli in spalla. Ai mariti dicevano che li avrebbero portati dal medico. Anche se dal medico in realtà sarebbero andate loro.
Io mi ricordo bene. Quella fila lunghissima e il mio pensiero in quell’istante:
«Che cosa ho io più di loro? Cosa ho fatto io meglio di loro?».
La risposta, ovvia, era niente. Non avevo niente di più o di migliore rispetto a quelle donne, se non la fortuna gigantesca di essere nata in un’altra parte del mondo.
Ecco, oggi io vorrei che quelli che abbandonano in mare per giorni poche decine di disperati, che quelli che fanno leggi per ricacciarli nei lager libici, che quelli che lasciano morire un papà e la sua bambina al confine degli Stati Uniti (nella foto in alto di Julia Le Duc) “perché qui tutti non ci stanno”, che quelli che urlano “chiudiamo i porti” e se ne fanno vanto, ecco vorrei che per un attimo si fermassero su quel mio stesso pensiero.
Potremmo essere noi su quelle barche in mezzo al mare. Potremmo essere noi in fondo al mare. Potremmo essere noi rinchiusi in un Paese che tortura e uccide. Potremmo essere noi a morire al confine di un Paese che non ci vuole.
Potremmo essere noi. Che non abbiamo altri meriti se non la fortuna di essere nati qui.
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