Ieri ho condiviso su Facebook la foto del poliziotto turco che, sulla spiaggia di Bodrum, prende in braccio il bambino siriano morto nella traversata che avrebbe dovuto portarlo a Kos, in Grecia.
Oggi ho condiviso la prima pagina del Manifesto, che è davvero uno schiaffo in faccia. C’è lui, il bambino, bocconi sulla sabbia. E c’è un titolo, Niente asilo.
L’ho guardata e mi è venuto male.
Però l’avrei fatta anch’io una prima pagina così.
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Su Facebook leggo i pareri di colleghi che argomentano, in modo assolutamente rispettabile e per certi versi condivisibile, il loro no a questa immagine.
E’ vero ciò che scrive Giorgio Levi: «Se fossimo un po’ più cinici saremmo più onesti. E sapremmo perché la foto dal bambino siriano sta su tutte le prima pagine dei giornali e dei siti in Rete. La domanda che ogni direttore (di ogni tempo e di ogni epoca) in riunione si fa è sempre la stessa: E se gli altri la mettono noi che facciamo? Così ora si pubblica tutto. Ogni direttore condisce la foto inventandosene una ragione, lo ha fatto benissimo La Stampa, è perfetto il titolo del Manifesto. Piovono like, condivisioni, mamme commosse, padri incazzati, politici indignati. Un po’ di copie si porteranno a casa».
E’ vero ciò che sostiene Emanuela Zuccalà: «Sappiamo tutti che gigantesco cimitero sia diventato il Mediterraneo, e conosciamo le responsabilità dell’Europa. Chi ha un’opinione su ciò che sta accadendo se la tiene stretta, non la cambia. I seguaci di Salvini e gli indifferenti, guardando il cadavere del bimbo siriano sulla spiaggia di Bodrum, verranno forse folgorati da uno strale di umanità? Io non credo. Sento che il mio, il nostro sguardo, non è in grado di accarezzare il bambino ma lo brutalizza ancora».
E’ comprensibile ciò che scrive Luca Martini, sulla foto della prima pagina del Manifesto. «Che orrore il gioco di parole del titolo Niente asilo, che orrore l’insensibilità del giornalista che fa giochi di parole sulla morte».
Gli risponde la scrittrice Michela Murgia: «Che orrore che il gioco di parole sia vero».
Ecco, credo che il punto sia questo.
E’ arrivato il momento di smettere di contarcela. E’ arrivato il momento di aprire gli occhi e di farli aprire agli altri. Quella foto, e anche quel titolo, ci dicono qual è la verità.
Stiamo assistendo a uno sterminio di massa con troppa indifferenza incredula. Uno sterminio di massa che sembra non toccare le coscienze quando è raccontato con frasi da comunicato stampa: “Sono deceduti 117 migranti di cui 24 minori”. Che non vogliamo vedere perché “disturba” le nostre (false) vite felici.
Guardare quella foto fa male. Ma quella foto va fatta vedere oggi, che è il giorno del dolore e dell’indignazione, e soprattutto domani e poi domani ancora e tra un mese e tra un anno.
Va fatta vedere a chi lancia allarmi contro “l’invasione”, a chi usa la “paura del clandestino” per schifosi fini politici, a chi se ne frega di quello che sta accadendo a milioni di persone e parlando dei migranti dice “quelli là”.
Bisogna guardarla la foto del cadavere del bimbo che scappava dalla Siria e che è morto nel mare della Turchia. E’ la foto dei bambini ad Auschwitz, della bambina che fugge in Vietnam, è la foto di Hudea, siriana di 4 anni che alza le mani davanti alla macchina fotografica che lei scambia per un fucile.
«Non sarà certo una foto a svegliarci. Ci sveglierà il dolore. Succederà quando a soffrire davvero saremo noi. E i nostri, di figli» scrive Giusy Cascio.
Apriamo gli occhi, accidenti. Aprite gli occhi, per favore.
La foto di Aylan, 3 anni, morto sulla battigia di una spiaggia, è una foto crudele e odiosa, ma solo un’immagine così riuscirà – forse – a toccare il cuore e la testa di alcuni. Solo alcuni forse, ma anche fosse uno solo sarà uno di più.
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(5 marzo 2016) Il tribunale turco di Bodrum ha condannato due scafisti siriani, Mufawaka Alabash e Asem Alfrhad, a quattro anni e due mesi per traffico di esseri umani. Ma li ha assolti dall’accusa di aver causato la morte di Aylan, e di altre quattro persone.
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