È stata la foto a colpirmi, ancor più dei numeri che seguivano. Il lancio stamattina dei dati Istat sulla povertà in Italia erano accompagnati dall’immagine di una mendicante che ho incontrato per mesi nel tratto di strada da casa mia alla fermata del bus.
E io, fino all’agosto del 2011, lo avevo visto solo nei telegiornali, nei miei amatissimi film catastrofici oppure su Weather Channel, che è il canale televisivo più divertente d’America.
La Siria è un Paese in guerra.
Lo è dal marzo 2011, quando migliaia di persone cominciarono a protestare contro il regime del presidente Bashar al-Assad ad Aleppo e Damasco. Nonostante la repressione violentissima, le proteste si diffusero. A maggio Assad schierò l’esercito nelle strade. Poche settimane dopo, con la nascita dei primi gruppi ribelli, cominciò un conflitto civile che continua ancora oggi. E che in un Paese di 22 milioni abitanti, ha provocato finora 140 mila morti, 3 milioni di profughi che hanno trovato riparo soprattutto in Egitto, Iraq, Libano e Giordania, e almeno altri 5 milioni di profughi interni, cioè persone costrette ad abbandonare le loro case.
Il rosticcere sotto casa, quello che mi salva quando il frigo è vuoto e mi guarda con tenerezza quando addito le carote e gli chiedo cosa sono, inforca le coste bollite e mi dice nel suo milanese madrelingua: «A mi el me pias no, mi a soo minga Prandelli, che po’ anche lu…, ma Balotelli no! No no no!». Io lo guardo con un filo d’ansia impugnare il forchettone come fosse un macete. Lui scuote la testa. E dice, e sembra un singhiozzo: «Questo no».
La prima volta del mio Brasile risale a tanti anni fa.
Ero appena arrivata in Mondadori e in uno di quei momenti in cui non riesci ancora a capire bene dove sei, avevo sentito il direttore chiedere al caporedattore: «E se a raccontare le favelas mandassimo questa Triglia?».