Se ne è andato il 17 luglio a 93 anni (ne avrebbe compiuti 94 a settembre). Una persona straordinaria. Un grande scrittore.
***
Era il 27 novembre dello scorso anno. Al Teatro Franco Parenti di Milano sono arrivata un’ora prima perché volevo vederlo da vicino. Andrea Camilleri, il “papà” del commissario Montalbano, lo scrittore che ci ha insegnato la lingua di Vigata, quella sera sarebbe salito sul palco per presentare il suo ultimo libro “I tacchini non ringraziano” (Salani).
Ma la folla era così… “folla” che avevo trovato un posto solo a metà sala, in mezzo a un pubblico che più diverso non si può. Giovani con i capelli rasta e signore anziane con il filo di perle, milanesi in carriera giacca-cravatta-casco della moto e alternativi degli anni Sessanta con i riccioli bianchi sulle spalle. Erano tutti lì per lui, personaggio straordinario almeno quanto i protagonisti dei suoi libri.
Camilleri era entrato in scena appoggiandosi alle spalle della sua assistente. Cieco da tempo, aveva salutato il pubblico che si era alzato in piedi: «Anche se non vedo vi vedo, e allora grazie!» aveva detto con il sorriso che lo avrebbe accompagnato per tutta la presentazione.
Aveva raccontato di animali, a partire dalla storia del gatto Barone con cui aveva vissuto 18 anni. Lo aveva salvato da un gruppo di sciagurati ragazzi che, in una crudelissima partita, lo stavano prendendo a calci come fosse un pallone. E allora lo scrittore era intervenuto, aveva raccolto quel povero micio e lo aveva portato di corsa da un veterinario che, però: «Mi scusi, ma io ho curato sempre cavalli e mucche e mai un gatto» gli aveva detto desolato.
Così il gattino era stato affidato alle cure della figlia di Camilleri, Mariolina, che, mese dopo mese, lo aveva guarito soprattutto grazie all’amore. «In casa abbiamo sempre avuto moltissimi animali» aveva detto lo scrittore. «Cani, gatti, canarini, pappagalli. Le mie figlie sono cresciute in una specie di zoo e sono felice che abbiano recepito questo amore».
Io avevo deglutito per l’emozione. Ho una gatta – Pisola – che è con me da 18 anni. Anche lei aveva rischiato una brutta fine ed era stata salvata dalla volontaria di un canile dove qualcuno l’aveva gettata chiusa in un sacchetto del pane.
E’ difficile parlare dell’amore che si prova per un animale. Sono tanti quelli che ti guardano strano, come se tu fossi un po’ fuori di testa. Una specie di disagio che credo provasse anche Camilleri, perché aveva precisato subito: «Io non sono uno di quelli che tratta un gatto come un figlio. Un figlio è un figlio, un gatto è un gatto. Ma Barone è stato per me più di un amico. Un vero consigliere. Quando scrivevo i miei romanzi, sempre gli chiedevo cosa ne pensasse. Se continuava a guardarmi, era un giudizio positivo. Se si girava e se ne andava con la coda dritta, allora voleva dire che dovevo cambiare strada anch’io».
Ne “I tacchini non ringraziano” Camilleri descrive cani, gatti, cardellini, volpi, serpenti e tigri come portatori di uno spirito ricco di amore e di intelligenza, molto più complesso e profondo di quanto si pensi: una “magaria” (in dialetto siciliano incantesimo, magia) inesauribile. Ciascuno di loro sembra comprendere la logica degli uomini, che di volta in volta sfrutta a suo favore o prova a sconfiggere con varie strategie, sempre vincenti: dalla dignità dei tacchini al canto riconoscente di un cardellino, dall’astuzia di un leprotto alla commovente compostezza di un gatto innamorato, dalla mite bellezza di una capra alla puntualità discreta di un serpente.
In quella presentazione bellissima, tra gli applausi del pubblico, Camilleri aveva raccontato non solo di Barone ma anche della cagna Baracca, che aveva recuperato in un fossato sotto la pioggia con i suoi 4 cuccioli; o della tigre in uno zoo di cui si era innamorato.
«Mi dicono che tra qualche anno riusciremo a parlare con loro» aveva commentato con un sorriso. «Pensate cosa ci sentiremo dire. Che siamo sciagurati, soprattutto crudeli».
Forse il mondo è diventato troppo brutto, aveva aggiunto, perché la bellezza degli animali abbia diritto a esistere. Anche se si era detto convinto che un mondo meno prepotente in cui convivere e rispettarsi fosse ancora possibile.
Un ottimismo che ultimamente è sembrato scemare. «Stiamo peggiorando in tutto: nel linguaggio, nel modo di rapportarci gli uni con gli altri, in questa assurda aggressività. La politica dà un cattivissimo esempio, e il 90 per cento dei cittadini ci sguazza» aveva detto giorni fa in un’intervista a Radio Capital: «Vedere impugnare il rosario, come ha fatto il ministro Salvini, mi dà un senso di vomito. E’ chiaro che tutto questo è strumentale». E non aveva risparmiato critiche al Movimento 5 Stelle («Dal punto di vista politico sono nessuno, mai avrei pensato che avrebbero fatto come i vecchi partiti sul processo a Salvini») e al Pd («La rinascita non nasce come un fungo: è preparata da anni di paziente lavoro. E io non vedo un’idea di rinascita»).
L’estate scorsa Camilleri aveva impersonato l’indovino Tiresia al Teatro Greco di Siracusa. «Lo faccio per intuire l’eternità» aveva spiegato in un’intervista al quotidiano Avvenire. «A 93 anni è un pensiero inevitabile: ci si accorge che qualcosa si sta avvicinando e non si sa bene che cosa sia. A me piace chiamarla così, “eternità”. In teatro, a Siracusa, mi pare di averne davvero intuita l’essenza. Camminavo sulle stesse pietre calpestate da Eschilo, si rende conto? Questa è una forma possibile di eternità».
- La foto in alto è tratta dal programma Che ci faccio qui di Domenico Iannacone. La puntata dedicata a Andrea Camilleri la trovate cliccando qui.
Articoli che ti potrebbero interessare