Quando due anni fa, ad Alba, mi sono seduta accanto a lui – il grande scrittore che qualche ora dopo avrebbe ricevuto il riconoscimento della sezione La Quercia del Premio Bottari Lattes Grinzane – ho pensato di aver esaudito uno dei desideri della mia vita. Ero vicina a uno degli autori che più amavo, un punto di riferimento della letteratura. Oggi Amos Oz se ne è andato a 79 anni ed è un dolore vero.
Ho conservato in una cartellina la motivazione di quel premio: «Amos Oz è stato il grande narratore, partecipe e critico, dello Stato di Israele. Ha raccontato l’epopea della comunità tornata sulle terre dei Padri e lì costituitasi in Stato, lottando per la libertà ma anche contro il suo stesso tragico passato e i labirinti di follia e disperazione che ha generato; ha rievocato i suoi tentativi ingenui e disperati di costruire nei kibbutz una società perfetta e ha esplorato senza pregiudizi, ma con trepidazione e ansia di giustizia, le vicende che da decenni la vedono impegnata in un sanguinoso conflitto con i Palestinesi e i Paesi vicini, schierandosi, come recita il titolo di una raccolta di saggi, contro ogni fanatismo. Capace di spaziare dalla forma del romanzo epico a quella della fiaba tenera, dalla saggistica politica a quella linguistica, Oz è raffinato e profondo scrittore degli incontri: tra generazioni, tra popoli, tra religioni. Per la qualità letteraria e la verità umana dei suoi libri, la giuria gli ha conferito il Premio Bottari Lattes Grinzane – sezione La Quercia – all’unanimità».
Un altro premio veniva assegnato in quei giorni. Era il Nobel per la letteratura e Amos Oz era tra i candidati, tra i favoriti. Ma vinse Bob Dylan. Cordiale, gentile anche se dall’aspetto un po’ burbero, Oz aveva risposto alla mia richiesta di un commento con una sola frase: «Ogni cosa scritta con le parole è letteratura».
Ricordo che in quella chiacchierata si era definito “un racconta-storie”. «Ed è un onore» mi aveva detto «essere stato premiato in un contesto così attento ai giovani. Avevo poco più di 10 anni quando scrissi la mia prima storia e la raccontai agli amici. Al termine una ragazzina mi baciò sulla guancia. Ecco, il premio che ricevo oggi qui ad Alba mi ricorda quel premio ricevuto allora».
Nella lectio magistralis aveva ricordato come Israele fosse una buona metafora per la condizione umana. «È circondata da vicini pericolosi, vive in una zona insicura. È una drammatizzazione dell’incertezza che proviamo: solitudine, vecchiaia, crisi familiari. Tutti viviamo sulle pendici di un vulcano».
E aveva spiegato quali fossero le regole per scrivere: «Le storie si creano solo mettendosi nei panni degli altri, o meglio ancora, nella pelle di un altro o di un’altra. Io scrivo perché per me è una necessità vitale. Un bisogno di ascoltare le storie degli altri e di raccontarle».
E ancora: «Mia nonna diceva: piangi tutte le tue lacrime e quando non ne avrai più per piangere allora quello è il momento di ridere. Ecco come scrivo io».
Oggi diciamo addio al grandissimo autore del capolavoro “Una storia d’amore e di tenebra” e di tanti altri libri appassionanti. Che quel giorno ad Alba mi disse, stringendomi le mani: «Non migliorerà il mondo, ma un buon romanzo parla di voi, del vostro vicino. Leggere un libro significa parlare con gli altri».
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