Sono atterrata a Donetsk nel marzo di tre anni fa, con un volo Lufthansa da Monaco di Baviera. Pensavo di viaggiare insieme a russi e tedeschi. Invece sentivo parlare italiano. Poi ho capito che due terzi dei passeggeri erano badanti a servizio da anni in famiglie del nord Italia. Tornavano a casa per brevi vacanze, chi per le nozze di un figlio, chi per il parto di una figlia. In quelle poche ore di aereo avevamo fatto quasi amicizia e mi aveva colpito il senso di gratitudine e di affetto vero che provavano per il nostro Paese.
Donetsk allora era il polo industriale più forte dell’Ucraina, ricca per le miniere di carbone. Mi è sembrata subito tanto brutta con i suoi viali larghi su cui si affacciano edifici squadrati e malmessi e grattacieli in costruzione; la piazza con la statua di Lenin di fronte a un McDonald’s sempre affollatissimo (bell’esempio di come è cambiato il mondo); uno stadio, il Donbass Arena, dove si sono giocate anche le partite degli ultimi Europei, costruito per celebrare lo Shakhtar Donetsk, squadra cittadina famosa per aver vinto la coppa Uefa.
Io ero partita per Donetsk per seguire il progetto di Medici senza Frontiere che avrebbe dovuto curare i carcerati malati di tubercolosi. Ma quando ci sono arrivata, la situazione era in alto mare: la volontà degli operatori umanitari di entrare in prigioni che raccontavano infernali si scontrava con la burocrazia ucraina. Così, in attesa di visitare le celle con un permesso che non sarebbe arrivato mai, ho conosciuto un po’ di gente, e notato come tutti – ma proprio tutti – parlassero russo e non ucraino.
Non volevano essere ucraini. L’ho capito in tante chiacchierate. Ricordo bene uomini e donne e i loro sentimenti forti e duri: dal rimpianto per un tempo irrimediabilmente finito (l’Ucraina era una delle 15 repubblica dell’Unione Sovietica) alla rabbia per quello che era stato vissuto come un sopruso (lo Stato indipendente dichiarato nel 1991). Non volevano essere ucraini anche perché, da ucraini, la loro vita si era fatta difficile, con stipendi bassi e prezzi alti, e servizi, come la scuola e la sanità, che da gratuiti si erano fatti tutti a pagamento.
Forse già nei racconti di quella manciata di giorni c’era il seme di quanto si è sviluppato poi. Fino all’esplosione dello scorso aprile, quando i filo russi hanno autoproclamato la Repubblica popolare di Donetsk e gli scontri con l’esercito ucraino sono diventati sempre più violenti.
Oggi ho visto le immagini dell’aereo della Malaysia Airlines abbattuto nei cieli di Donetsk. Sia l’esercito ucraino sia i separatisti filo-russi negano di avere a che fare con un incidente che ha portato la loro guerra nel mondo.
A Donetsk l’aeroporto dove sono atterrata è chiuso da tempo. Non ci sono più voli con uomini d’affari e tifosi di calcio e badanti. Medici senza Frontiere ha concluso il progetto. Restano scontri, bombardamenti, un migliaio di vittime in tre mesi tra civili e combattenti, una guerra che chissà se finirà. E quei 298 passeggeri dell’aereo per Kuala Lumpur che si trovavano a passare di lì.
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