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Il mio Brasile

La prima volta del mio Brasile risale a tanti anni fa.

Ero appena arrivata in Mondadori e in uno di quei momenti in cui non riesci ancora a capire bene dove sei, avevo sentito il direttore chiedere al caporedattore: «E se a raccontare le favelas mandassimo questa Triglia?».

“Questa Triglia” ero io e mi ricordo che mi venne un colpo. Due giorni dopo, dal telefono di un albergo brasiliano, chiamavo l’unico contatto che ero riuscita a recuperare, un missionario italiano impegnato ad aiutare i più poveri tra i poveri in quella metropoli infernale che è San Paolo.

La prima volta del mio Brasile si è consumata quasi tutta lì, nella baraccopoli di Paraisópolis,

decine di migliaia di persone, rifiuti e tetti di amianto, bambini scalzi e televisori perennemente accesi dentro a casupole dove non c’era neppure l’acqua.

Dove sembrava non esserci nulla di buono. E dove invece scoprivo, giorno dopo giorno, persone gioiose e generose. E piccole scuole e ambulatori medici e minuscole mense e laboratori di cucito. Sempre sul punto di chiudere per mancanza di soldi ma che, non si sa come, non chiudevano mai.

«È la providência» rideva il missionario grande e grosso, che mi vedeva disorientata e mi prendeva un po’ in giro.

In un giorno di pioggia della prima volta del mio Brasile ho pensato che la collina di quella favela sarebbe franata e io con lei, perché l’acquazzone aveva trasformato i viottoli tra le baracche in fiumi di fango che si tiravano dietro tutto, televisori accesi compresi.

In una notte caldissima, dalla finestrella della camera dove dormivo ho spiato un regolamento di conti a colpi di bottiglie tra due bande di ragazzini.

E in un giorno di sole ho visto il primo morto ammazzato della mia vita. Il cadavere di un ragazzo raccolto in mezzo alla strada e gettato in una carriola: gli avevano sparato un colpo di pistola in faccia. Davanti alla carriola ho smesso di respirare. Sono rimasta in apnea un bel minuto, poi il missionario mi ha spinto via. La sera mi ha cucinato spaghetti italiani nel tentativo di farmi mangiare.

Sono tornata in Brasile altre volte, ho risalito il Rio Negro in Amazzonia, ho passeggiato per le strade di Salvador de Bahia, ho preso il sole sulla spiaggia di Copacabana, sono andata in pellegrinaggio al Maracanà, ho visitato l’umidissima Manaus della partita mondiale tra Italia e Inghilterra.

Ma il mio Brasile è rimasto il primo, quello del missionario grande e grosso che giocava al pallone con i bambini scalzi.

«Dovete diventare tutti Bebeto» gridava, che credo fosse un grande giocatore di allora. Ma anche l’incitamento a un riscatto che chissà se sarebbe arrivato mai.

***

Secondo le statistiche dell’IBGE, l’Istituto brasileiro de geografia e estatistica, in Brasile ci sono circa 6.500 favelas in 323 Comuni. In questi agglomerati abitano quasi 11 milioni e mezzo di persone, circa il 6 per cento della popolazione brasiliana.

 

 

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