In questi giorni ho assistito a una storia triste che arriva da sinistra (ma poi, che sinistra? Va beh, questo è un altro discorso, anche se triste come la storia).
Arriva da sinistra nel senso che ha come protagonista una ex presidente della Camera che faceva parte di Sel (Sinistra ecologia e libertà), passata poi in Liberi e Uguali e poi emigrata nel Pd.
L’ha pubblicata Il Fatto Quotidiano e l’ha firmata Selvaggia Lucarelli che non è una giornalista di quelle che mi piacciono ma a cui riconosco il coraggio di denunciare facendo nomi e cognomi, cosa che non accade quasi più (ma anche questo è un altro discorso, e anche questo triste).
La storia triste è quella di Laura Boldrini.
Non voglio farne una questione femminile, anche se un po’ ci starebbe perché la Boldrini ha fatto della bandiera femminista e della difesa delle donne la sua cifra.
Non voglio farne neppure una questione politica, anche se sarei tentata e anche se da una di sinistra (sigh) che è pure stata portavoce dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, mi sarei aspettata tutt’altro.
La storia è triste perché racconta di una persona, anzi di un datore di lavoro, che tratta i collaboratori come servi.
La Boldrini lo fa con la colf moldava, con lei da otto anni, a cui chiede, anzi impone, di lavorare meno ore ma anche il sabato. Non le va? E allora dimissioni, e da dieci mesi ancora niente saldo della liquidazione, 3.000 euro circa («stiamo controllando, forse un po’ meno» precisa l’ex presidente della Camera in un’intervista a Repubblica). Dieci mesi («i calcoli sono complicatissimi», ma pensa un po’!) per 3 mila euro dopo 8 anni di lavoro.
Lo fa con l’assistente, che da Lodi va a Roma dove, tre giorni la settimana perché il contratto è part-time, lavora dall’alba alla notte pagandosi il treno e anche l’alloggio. Un’assistente che «ha lavorato benissimo, facendo tanti sacrifici, perché con lo stipendio da 1300-1400 euro doveva coprire anche le spese» dice la Boldrini. Peccato che la bravissima assistente dovesse anche pagare gli stipendi alla colf, andarle a ritirare le giacche dal sarto, prenotare il parrucchiere, comprarle trucchi e pantaloni, far visitare un appartamento alle agenzie immobiliari.
Lo fa con un altro collaboratore: «Se l’hotel che le veniva prenotato da noi» ha raccontato il malcapitato «era che so, rumoroso, in piena notte magari chiamava urlando». (Questo deve essere diffuso in un certo mondo. Anch’io ho conosciuto una tipa – ora presente nei talk show a commentare di vaccini di cui poverina non sa niente – che una volta, trovando la stanza d’albergo fredda, diede in escandescenze e scrisse con i suoi rossetti ingiurie sulle pareti. E i danni non lì pagò lei).
Ecco, tutto questo esprime bene la miseria umana. L’arroganza di chi si crede chissà chi. Di chi pensa che il potere consenta tutto. Di chi, nel nome della lamentazione “oddio, sono una donna e sono sola”, ha la faccia tosta di rispondere, a chi le chiede se rientra tra i compiti di un’assistente parlamentare prenotarle il parrucchiere: «Non accade solo a me, ma a tutte le persone che hanno agende complesse. Un uomo può chiedere aiuto alla compagna, una donna sola no» (che faccia a sostenerlo in un Paese dove ci sono donne – tante ma proprio tante – che si fanno in otto per far tutto da sole).
La replica di Laura Boldrini nell’intervista a Repubblica conferma tutto quello che i suoi collaboratori le hanno (con molta pacatezza, in realtà) contestato.
Ma soprattutto conferma l’abitudine (perché è diventata un’abitudine) ormai collettiva di considerare il lavoro “una gentile concessione”. Senza diritto alcuno. Senza rispetto alcuno. Senza dignità.
Vale per le colf e per le assistenti parlamentari, ma anche per i driver di Amazon, per i giornalisti pagati 7 euro lordi a pezzo e per tantissimi altri.
Succede questo, ed è anche colpa nostra. Che a certe storie tristi assistiamo muti. Ormai assuefatti.
p.s. Dicono che la sinistra dovrebbe difendere i diritti dei lavoratori. Ecco, mi verrebbe da ridere se non avessi voglia di piangere.
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