Quando l’ho visto, imponente e con un bel sorriso, entrare nella hall del grande albergo di San Antonio, in Texas, ho pensato subito che mi trovavo di fronte un protagonista della storia delle conquiste spaziali. Era il 1995 e Jim Lovell era lì per me, per farsi intervistare in occasione dell’uscita del film Apollo 13 dove era impersonato da Tom Hanks.
«Viene dall’Italia? Ma se io non sono mai sceso sulla Luna!» mi aveva detto ridendo dopo avermi stretto la mano. Affascinante, gentile e cordiale, aveva allora 67 anni. Oggi ne ha 91: chissà se ha conservato la simpatia e l’intelligenza di allora.
Forse questo è un giorno strano per raccontare la sua storia, mentre tutti celebrano “il piccolo passo per l’uomo ma il grande passo per l’umanità” con cui Neil Armstrong toccò il suolo lunare il 21 luglio 1969. Ma nella storia delle missioni spaziali di allora, quando sembrava che l’uomo potesse tutto, anche Lovell ha fatto la sua parte. «Se Neil sarà ricordato come il primo uomo a essere sceso sulla Luna, io lo sarò per essere stato il primo naufrago dello spazio che è riuscito a tornare a casa» mi aveva precisato serio.
Seduto su una poltrona in una sala dell’albergo che aveva scelto per l’intervista («mi piace San Antonio, è a poco più di un’ora e mezza di auto da Horseshoe Bay, dove vivo») aveva ordinato tè freddo: «Lei pensa forse che tutti i texani bevano whisky?» mi aveva chiesto con lo sguardo di chi ti prende un po’ in giro. «E comunque io sono nato in Ohio». Poi: «Ma veniamo al dunque. Vuole sapere di quel mio volo al comando di Apollo 13, giusto?».
Già, era proprio così. E allora. «Lo sa come titolavano i giornali i primi giorni? “Apollo 13 troppo perfetto, la gente si annoia”. Del resto, fino a quel momento tutto era andato per il meglio. Il lancio era stato perfetto. Il volo non aveva registrato il minimo problema. E la rotta era così esatta che la correzione prevista dal centro di controllo di Houston era stata cancellata. Sì, i giornali parlavano di noia, e i titoli occupavano poche colonne: il nostro prossimo sbarco sulla Luna, il terzo nella storia dell’uomo, già non faceva più notizia. Siete tremendi voi giornalisti!» aveva commentato scuotendo un poco la testa.
Andava tutto bene. Ma… «Alle 4.15 del mattino, ora del Texas, di martedì 14 aprile 1970, io riposavo ascoltando la colonna sonora del film “2001 Odissea nello spazio”. Gliel’ho già detto che anche l’astronave si chiamava Odissea?».
Io non avevo trattenuto un’espressione non proprio gentile. «Lei voleva sfidare la sorte» gli avevo detto con tono accusatorio. «No, mi creda, non era questione di sfida alla sorte» aveva risposto lui. «Odissea era il nome che avevo scelto perché mi era piaciuta la definizione del dizionario: lungo viaggio segnato da molti cambiamenti di fortuna».
Cambiamenti di fortuna. Come quello delle 4.15 ora di Houston. «Improvvisamente ho sentito un rumore secco, anomalo. Ho pensato: “E’ Fred (Haise, uno dei due compagni di Lovell) che sta chiudendo il portello del Lem, il modulo lunare collegato con l’astronave”. Ma quel rumore era diverso. Più forte. Mi sono girato. Haise mi stava guardando. E i suoi occhi erano quelli di un uomo spaventato. In quel momento si sono accesi i segnali di allarme: urlavano impazziti mentre la navicella ondeggiava e ruotava su se stessa e l’illuminazione all’interno della capsula diventava sempre più fioca. John (Swigert, il terzo astronauta) ha afferrato la radio. E ha gridato: “Houston, abbiamo un problema”. Dal centro di controllo è arrivato l’ordine di ripetere. “Houston, abbiamo un problema, qui” ho detto io».
Ricordo che lo ascoltavo come un bambino ascolta un adulto che racconta una fiaba paurosa. Trattenendo il fiato. Lui mi aveva guardato con un sorriso un po’ ironico: «Che fa, non respira?», ma poi era tornato serio.
Serio davvero mentre raccontava: «Non riuscivo a staccare gli occhi dagli indicatori dell’ossigeno: uno dei tre serbatoi si era esaurito in pochi secondi. E un altro stava perdendo ossigeno a una velocità vertiginosa. “Apollo 13, il guaio è serio. Ma troveremo una soluzione”: il centro di controllo ci raccomandava la calma. “Fate in fretta” ho risposto. Dovevamo fare in fretta: ci trovavamo a 328 mila chilometri dalla Terra. Ed era rimasto ossigeno per meno di due ore. “Aprite le istruzioni di emergenza” ha ordinato Houston.
Era la prima volta che accadeva, in una missione Apollo. L’unico computer ancora funzionante indicava che un’ora e 55 minuti dopo saremmo morti per mancanza di aria. Odissea sarebbe stata la nostra tomba: avrebbe continuato il suo folle volo verso la Luna, vi avrebbe girato intorno, sarebbe poi tornata verso la Terra. Ma non l’avrebbe raggiunta: sarebbe entrata in un’orbita a forma di uovo, che le avrebbe fatto fare la spola tra il pianeta e il satellite. In una traiettoria spaventosamente priva di scopo, spaventosamente costante, che sarebbe durata per l’eternità.
“Trasferitevi nel Lem” ci ha ordinato Houston. “Cerchiamo di portarvi a casa”. Acquario, il modulo lunare, aveva una riserva di ossigeno: avremmo dovuto utilizzarlo sulla Luna. Ora Acquario diventava la nostra scialuppa di salvataggio. Una volta sul Lem, ho guardato fuori: Odissea, illuminata dal sole, era devastata, su un lato, da uno squarcio enorme. Osservando quel disastro ho pensato: siamo in trappola. Non ce la faremo mai a tornare a casa».
Era stato allora che per un attimo lo sguardo di Jim Lovell si era perso nel nulla. Quasi fosse tornato di nuovo in quel nulla dove avrebbe potuto rimanere per sempre.
«Avevo tanto desiderato toccare il suolo lunare» aveva poi continuato. «Mi ero proposto di raggiungerlo fin dalla vigilia di Natale del 1968 quando, su Apollo 8, avevo orbitato – primo uomo nella storia – intorno al nostro satellite. Allora mi aveva incantato la visione di quel suolo torturato da migliaia di crateri. Era tormentata e aspra anche l’area Fra Mauro, dove avrei dovuto scendere con Apollo 13. E invece, eccomi nel Lem, a cercare di risparmiare energia, a studiare come eliminare l’anidride carbonica e come resistere al freddo terribile, sempre più intenso.
Ma soprattutto a dire addio al mio sogno di camminare sulla Luna. E a tentare disperatamente di tornare sulla Terra, dove mi attendevano mia moglie e i miei quattro figli. Più che l’idea di morire, mi opprimeva pensare a quanta angoscia provassero in quelle ore. Non c’erano alternative, se non proseguire il nostro viaggio, compiere un’orbita intorno alla Luna, e iniziare il rientro verso la Terra».
Era durato giorni quel naufragio spaziale. «Giorni eterni: li abbiamo passati senza quasi mai dormire, sempre in allerta. Spaventati, esausti, infreddoliti. Alla fine del nostro folle volo, Houston ci ha ordinato di rientrare nell’astronave. Di staccare il Lem e di abbandonarlo nello spazio. “Addio Acquario. E grazie” ho detto, mentre la nostra scialuppa rotolava via, verso le stelle.
Pochi minuti prima del rientro nell’atmosfera, nella navicella è sceso il silenzio. L’attrito avrebbe provocato sulle pareti esterne del nostro velivolo una temperatura di oltre 2.700 gradi. Se l’esplosione che aveva danneggiato irrimediabilmente l’astronave aveva incrinato anche lo scudo termico – e noi non potevamo saperlo – saremmo morti carbonizzati. Ho guardato fisso fuori dal finestrino. Ecco, il calore tingeva l’esterno di rosa, e poi di arancione, e poi di un rosso pieno di scintille. I contatti radio con Houston erano interrotti da qualche minuto quando, finalmente, dall’oblò ho visto il cielo tornare azzurro. Ce l’avevamo fatta.
“Come mi senti, Houston?” ho chiesto poco prima dell’impatto con l’oceano. “Molto bene. E’ meraviglioso, Jim” mi hanno risposto. “Siamo a casa, ragazzi” ho detto ai miei compagni. Siamo ammarati alle 12.07, ora del Texas, del 17 aprile 1970. Era un venerdì».
Di quell’incontro molto speciale, il ricordo più forte è quello di quando Jim Lovell mi aveva parlato del “dopo”. «Provo un grande rimpianto per non essere sbarcato sulla Luna. Per molti anni è stato addirittura un dolore sordo, profondo. Anche la Nasa, dopo l’euforia iniziale, ha fatto scendere il silenzio su una missione che, per troppo tempo, ha considerato un fallimento.
Oggi, però, la penso diversamente: Apollo 13 è stato un grande successo. Siamo riusciti a tornare a casa. Siamo i primi naufraghi dello spazio a essere riusciti a salvarsi. Da allora, ogni mattina mi sveglio felice. Perché considero ogni giorno un giorno regalato. Il film Apollo 13 l’ho visto dieci volte. Mi coinvolge. Mi fa rivivere le emozioni di allora. E la scena nella quale Tom Hanks pronuncia quella frase: “Houston, abbiamo un problema” mi provoca un tuffo al cuore: comincia da lì, ogni volta, la mia straordinaria avventura di uomo perduto nello spazio».
Lei sa di essere riuscito in qualcosa di più grande di quanto sarebbe stata una passeggiata sulla Luna? gli avevo detto mentre lo salutavo. Jim Lovell aveva riso, poi si era avvicinato e mi aveva sussurrato: «Sì. Ma non lo dica a Neil Armstrong, se mai un giorno dovesse intervistarlo».
*Nella foto in apertura, che ritrae l’equipaggio di Apollo 13, Jim Lovell è il primo da sinistra
Articoli che ti potrebbero interessare
Bellissima intervista nata dall’incontro con un personaggio che racconta, con efficacia e semplicità, un’esperienza straordinaria.
Brava Monica, l’articolo è molto bello, traspare anche l’empatia che si è creata in quell’incontro.