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I volti bui della storia e noi, che non siamo più capaci di dire no

Sabato sera è andata in onda in tv una puntata di “Ulisse” che Alberto Angela ha dedicato al viaggio senza ritorno degli ebrei catturati a Roma dalle SS il 16 ottobre 1943 e portati in treno ad Auschwitz e in altri campi di sterminio. Una trasmissione importante che Angela aveva annunciato con un tweet che diceva così: «C’è sempre il rischio che i volti bui della storia riappaiano. L’unico modo per evitarlo è conoscerla, raccontarla».

Davvero la storia, anche quella più tragica e drammatica, può ripetersi? E’ una domanda che mi sono fatta fin da bambina, quando sui libri di scuola leggevo quanto era accaduto negli anni tremendi dell’Olocausto. Non imparare da certe orribili tragedie del passato è impossibile, mi dicevo. Nulla di quanto accaduto accadrà più.

La vita, e le esperienze che ho fatto anche grazie al mio lavoro, mi hanno dimostrato il contrario. Ho capito che certe atrocità si ripetono, eccome. I campi di concentramento li ho visti con i miei occhi, a Omarska in Bosnia per esempio.

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Oggi vivo un periodo in cui sento più forte l’ansia per una storia che forse non è passata mai. E’ un tempo, il nostro, segnato da tanti eventi preoccupanti che raccolgono sì condanne (troppo spesso solo verbali) ma non reazioni forti come dovrebbero essere.

Il caso dei bambini stranieri che un regolamento discriminatorio del Comune di Lodi (sindaco leghista Sara Casanova) ha escluso dalla mensa e dallo scuolabus e costretto a pranzare separati dai compagni con un panino portato da casa, ha suscitato indignazione quando è diventato pubblico grazie a giornali e tv. Ma quella norma era in vigore dal novembre dello scorso anno. Io  mi chiedo: perché i genitori dei bambini italiani che hanno continuato a sedersi a mensa come se nulla fosse non hanno reagito? Cosa (non) hanno detto quei padri e quelle madri e la comunità cittadina quando si sapeva  che ai piccoli stranieri  veniva negata anche la merenda di metà mattina?

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Segnali. Sono segnali di un sentimento di indifferenza malata («non mi riguarda, non mi voglio esporre») che sta diventando sempre più radicato e diffuso. Ma sono anche sintomo di un’intolleranza verso chi non è come te che non è più solo di pochi.

«Non è razzismo è paura» ho sentito dire l’altra sera a un incontro in cui si discuteva della situazione politica italiana. Io non sono così sicura.

E’ che non ci si vergogna più a non tacere sentimenti che tanti hanno dentro forse da sempre (la storia che si ripete) e che ora, grazie a politici che di certe posizioni si fanno un vanto, ci si sente autorizzati a esprimere. Orgogliosi di farlo.

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La cliente che urla contro il cassiere del supermercato di Varese perché «è nero»; il ragazzino impegnato in un torneo di calcio a Nazzano (Carrara) preso a male parole dai genitori dei giovani calciatori avversari perché straniero; l’autista del bus di Lucca che allo studente 16enne originario dello Sri Lanka dice: «Non ti puoi sedere, puzzi di morto».

Dove siamo tutti quando accadono fatti come questi, a cui – e neppure sempre – si dedica appena qualche riga nella cronaca locale?

«Chi si occupa di storia sa che con il passare delle generazioni i fatti si stemperano ma non deve succedere. Quel che è accaduto ai tempi dei nostri nonni, non lontanissimi, può accadere di nuovo. Ricordare è un vaccino, significa creare anticorpi affinché non accada mai più» ha detto sabato Alberto Angela.

Un vaccino affinché quello che è accaduto non accada più è anche il coraggio di dire no. Di opporsi. Di ribellarsi. Di urlare no di fronte al veleno che sta intossicando sempre più persone. Le urla che sentiamo in questi giorni (perché ci sono) sono ancora troppo deboli.

I volti bui della storia stanno tornando? Non lo posso dire, non lo so. Quello che so è che stiamo dimenticando. E non siamo più capaci di dire no.

 

 

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